Poche ferrovie e vie del mare, così i Tir fanno quel che vogliono

Poche ferrovie e vie del mare, così i Tir fanno quel che vogliono

I prefetti si mobilitano e parte lo stop ai blocchi dei tir. Ma se le proteste continuano, fermando la circolazione e i trasporti, sorge la domanda: com’è possibile che i cortei degli autotrasportatori riescano a mettere in crisi un Paese? Oltre ai disagi, ci sono i danni economici. Per fare un esempio, le perdite degli agricoltori, le cui merci restano ferme per il blocco, toccano i 50 milioni di euro al giorno. Al centro delle proteste, inoltre, è un piccolo gruppo sindacale che conta al loro interno circa 7.000 membri, mentre la maggioranza delle organizzazioni delle aziende degli autotrasporti ha sottoscritto la proposta del governo. Insomma, sembra che bastino pochi per bloccare tutto. Perché? Lo spiega Andrea Giucirin, professore a contratto di Finanza Pubblica presso l’Università Milano Bicocca.

«È un problema piuttosto grave», racconta. «Succede spesso che si ricorra a questo tipo di protesta, cercando di bloccare il traffico e la circolazione. Penso, ad esempio, alle azioni degli operai di Pomigliano D’Arco». Insomma, «è una brutta abitudine, che va contro al diritto degli altri di circolare, che non viene mai combattuta sul serio». Ma il punto è un altro. In Italia l’alternativa al trasporto su strada è molto limitata.

«Ad esempio, se pensiamo all’economia ferroviaria italiana», spiega, «si vede che è sviluppata molto bene, sia per trasporti che per capillarità. Ma solo al nord». Al sud la questione è molto più difficile. «In sostanza, manca tutto». E, soprattutto, «non è stato sviluppato un sistema efficace di intermodalità», attraverso il quale le merci possano passare da un mezzo di trasporto all’altro con facilità. «È il caso del rapporto tra le ferrovie e i porti: spesso non ci sono collegamenti tra i due mezzi». Di conseguenza, «le navi container preferiscono attraccare dei porti di Rotterdam e di Anversa, (anche se allungano il tragitto di almeno cinque giorni) e poi trasportare le merci in Italia». Non bastasse, «in diversi porti italiani non sono stati fatti i lavori necessari per ospitare grandi navi di trasporto». Si pensa al porto di Trieste, che pure, avendo un fondale basso, sarebbe perfetto per ospitare i grandi trasporti e «che viene superato, però, dal vicino porto di Capodistria», in Slovenia.

Per via aerea, c’è un altro problema, di natura diversa: «le dogane». Secondo Giuricin, «è un problema un po’ ridicolo», ma le merci che arrivano in Italia per via aerea devono affrontare una trafila di lungaggini burocratiche «che durano almeno 24 ore». Per fare un esempio, gli aerei «preferiscono, piuttosto che atterrare a Malpensa, arrivare a Francoforte, e poi da lì smistare la merce e farla arrivare in Italia con i tir». In questo modo, pur atterrando a 500 km di distanza da Milano, si riesce a fare più in fretta. Anche se aumentano i costi in termini di traffico, di consumo e di inquinamento. «Non si affidano ai treni perché, a quel punto, è più semplice il tipo di trasporto point-to-point, reso possibile solo con i camion».

E, infine, anche nello stesso mondo degli autotrasportatori: questa volta, il problema è il «nanismo delle imprese: la maggior parte delle imprese di autotrasporti è molto piccola, a conduzione familiare, con due o tre camion». La cosa, oltre che provocare grande frammentazione nella categoria, «ha ricadute nel volume degli affari», che, per le aziende, «è molto piccolo». Sono i casi in cui «i tir hanno il carico per l’andata, ma non per il ritorno. Cioè fanno il secondo viaggio vuoti, e in questo modo sprecano soldi, tempo e inquinano». In questo modo, l’intero comparto dei trasporti soffre di più se aumenta il prezzo del carburante, che è già tra i più alti d’Europa, se aumenta la concorrenza e l’abuso.  

Insomma, «si deve agire su concorrenza, intermodalità e burocrazia». Sono le tre frontiere, secondo Giucirin, attraverso le quali «il trasporto italiano può diventare più fluido» e renderlo meno attaccabile.