La benzina era finita ormai da giorni. Gli scaffali dei supermercati semivuoti. Acqua minerale, cibi e pesce fresco scarseggiavano. E il ritorno alla normalità è lento. Il bilancio della guerra dei forconi è questo. Con danni economici altissimi. Le stime dicono tra 300 e 500 milioni. Confindustria parla di 50 milioni solo nelle province di Siracusa, Catania e Palermo. Secondo Confindustria Palermo, in provincia sono oltre 60 le aziende costrette a chiedere l’avviamento della cassa integrazione, con oltre 2 mila lavoratori coinvolti. A Catania più di 800 persone rischiano il posto e nel Siracusano si parla di 4 milioni di euro di perdite. Anche Coldiretti ha parlato di tracollo dell’economia, con almeno 50 milioni di danni nel settore agroalimentare per lo sciopero. A Ragusa, pomodori e arance vengono smaltiti nei mercati vicini o buttati perché impossibili da trasportare. Bilancio pesantissimo, insomma, per le proteste che dalla mezzanotte di domenica 15 hanno tenuto bloccata la Sicilia. Autotrasportatori e agricoltori – insieme a pescatori, forestali e simpatizzanti – esasperati dal costo del carburante e dagli aiuti, secondo loro insufficienti, all’economia agricola della regione.
«Praticamente lavoriamo per indebitarci», ha riassunto Francesco Crupi, leader catanese del movimento dei Forconi, che riunisce gli agricoltori siciliani in protesta. Rivendicazioni trasversali a cui però, nel corso dei giorni, si sono contrapposte diverse critiche e denunce. Come quella del presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, sulle presunte infiltrazioni criminali nelle manifestazioni. Polemiche che seguono solo di qualche ora quelle sulle affiliazioni politiche dei movimenti, dall’estrema destra agli autonomisti. Tutte voci non confermate dagli stessi interessati e smentite sia dai Forconi che dai trasportatori aderenti a Forza d’Urto. Che, allentata (ma non terminata) la protesta, non perdono la loro incisività.
Restano alcuni dati. La facilità di dialogo dei manifestanti con il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, in quota Mpa. Lo stesso governatore che neanche un mese fa aveva fatto del caro-carburante il suo strumento di lotta autonomista al governo di Roma.
Restano le dichiarazioni di solidarietà da parte di Forza Nuova e alcune bandiere viste comparire ai presidi.
Ma restano soprattutto le denunce di autisti e commercianti che raccontano di essere stati costretti a fermare i propri mezzi e chiudere i propri esercizi per dimostrare solidarietà alle proteste. «Le intimidazioni possono anche essere così velate da non poterle descrivere – spiega Andrea Valenziani, giovane imprenditore agrumicolo di Lentini – Ma un siciliano le riconosce subito». E riconosce soprattutto il sistema delle «squadre», come le definiscono i negozianti. Gruppi che girano per i paesi siciliani in motorino, raccontano, per controllare se qualche negozio sia rimasto aperto. In quel caso, una decina di persone consigliano al proprietario di chiuderlo. Nel Catanese, una trentina di commercianti si sono rivolti alla Confcommercio locale che stima «Un danno di circa 500 milioni di euro», spiega Riccardo Galimberti, il presidente della sezione etnea.
«Cosa nostra è di certo presente dovunque ci siano interessi. Ma non è questo il lato oscuro della protesta», commenta Salvatore Lupo, storico del fenomeno mafioso. Che rimprovera industriali e politici per non essersi realmente interessati al blocco della produzione in Sicilia, «come se a noi la ricchezza calasse dal cielo». Forse perché il problema è percepito più come politico che economico. «L’hanno chiamata “primavera siciliana”, ma qui di rivoluzionario non c’è niente – commenta amaro Valenziani, tra i pochi a firmare il suo dissenso con nome e cognome – E che scopo può avere paralizzare la Sicilia, far chiudere tutti i negozi e ottenere una partecipazione non volontaria? Stanno preparando il loro campo politico e noi siamo solo l’allenamento».
Eppure il movimento è variegato. A Scicli, nel Ragusano, la solidarietà dei cittadini è totale. Studenti compresi. I negozi sono rimasti chiusi per sostenere la protesta, ma hanno riaperto nell’ultimo giorno ufficiale di blocchi. A differenza di altre zone dell’isola, l’agricoltura qui rappresenta la percentuale più consistente dell’economia locale. Ed è difficile trovare una famiglia che non abbia tra i parenti più stretti un agricoltore che lamenti la crisi. La maggior parte così esasperati da minacciare, insieme agli altri colleghi isolani, di voler riprendere i blocchi ad oltranza.