Nel suo tentativo di rinvigorire le prospettive dell’economia italiana, il presidente del Consiglio Mario Monti non ha perso tempo. Prima di Natale ha fatto approvare un pacchetto di consolidamento fiscale di 20 miliardi di euro, e intanto ha cominciato le manovre per aprire i mercati del lavoro e della produzione. Tuttavia l’immobile economia italiana ha di fronte a sé correnti contrarie da affrontare affrontare. In ultima analisi, non crediamo che l’Italia riuscirà a rimettersi sul sentiero della crescita in tempo per evitare di perdere l’accesso al mercato, ristrutturare il suo debito e, potenzialmente, abbandonare l’eurozona.
L’instabilità politica, marchio di fabbrica degli ultimi anni della presidenza di Silvio Berlusconi, adesso che il governo è retto da Mario Monti, si è attenuata rapidamente: i rappresentanti italiani sono di nuovi i benvenuti ai tavoli che contano della Ue; il paese esercita a Bruxelles un’influenza che non aveva dagli anni ‘80 e può rivaleggiare con la Francia per il ruolo di interlocutore privilegiato della Germania.
Questi miglioramenti nella reputazione politica sono coincisi con un periodo di relativa calma nella finanza. Se a metà novembre sembrava possibile che il debito italiano potesse subire uno sciopero dei compratori, il miglioramento dell’opinione dei mercati, ad inizio del 2012, ha visto calare in modo consistente i costi dell’indebitamento italiano in una serie di aste del debito sovrano con buone sottoscrizioni. Ciò è dovuto all’operazione di liquidità a lungo termine di tre anni della Bce (Ltro, o Long term refinancing operation, ndr), che alcune banche italiane hanno utilizzato per acquistare debito sovrano.
Sono sviluppi senza dubbio positivi, ma l’Italia non è assolutamente fuori dai guai. Le misure di austerità fiscale che Mario Monti ha annunciato al momento del suo insediamento metteranno a repentaglio la crescita. La sua agenda di riforme strutturali implica enormi costi anticipati – tra cui salari più bassi e più disoccupazione – che faranno da freno all’economia. Verosimilmente, nemmeno l’Ltro della Bce è in grado di accrescere in modo significativo le speranze di crescita dell’Italia. Se le banche italiane sono incerte sul merito creditizio di potenziali prestatori, non concederanno prestiti nemmeno se inondate di liquidità.
Sono fattori che, con ogni probabilità, determineranno la contrazione del Pil italiano nel 2012-2013, cosa che porterà a un aumento del rapporto tra debito e Pil, e che, a sua volta, renderà più forti le preoccupazioni degli investitori sulla solvibilità del Paese. Di conseguenza ci aspettiamo che gli interessi passivi cresceranno ancora e che l’Italia sarà obbligata a chiedere il bailout, il cui senso sarebbe di procurare tempo a sufficienza perché l’Italia torni a crescere e così, nel momento in cui i fondi del bailout saranno esauriti, possa rientrare nei mercati senza nessun sostegno ufficiale. Quante possibilità ci sono che questa strategia abbia successo? Non molte, temiamo.
Combinando tra di loro i soldi del Fondo monetario internazionale con i fondi dell’Efsf (European Financial Stability Facility) e dell’Esm (European Stability Mechanism), i leader europei potrebbero anche riuscire a creare un cordone di protezione da 1.000 miliardi di euro, destinata ai paesi periferici dell’eurozona. Considerando le necessità finanziarie di Grecia Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia per i prossimi anni, questa protezione sarebbe sufficiente solo per coprire i costi di gestione del debito e il deficit di bilancio per circa 18-24 mesi.
A quanto sembra, non ci sarà abbastanza tempo perché le riforme strutturali di Mario Monti inizino a aumentare la crescita. Quando finiranno i fondi del bailout, di conseguenza, ci aspettiamo che l’Italia non sarà in grado di stare sul mercato. A quel punto dovrà cercare un altro bailout oppure dovrà ristrutturare il suo debito. Dato che è difficile immaginare da dove si possano trovare i finanziamenti per una nuova iniezione di liquidità, è più probabile che si dovrà scegliere la seconda.
Tuttavia, anche se si operasse una ristrutturazione, quella potrebbe riguardare solo lo stock del debito esistente, e non risolverebbe il problema del flusso. Ciò richiederebbe una maggiore competitività e una maggiore crescita. Con una forte opposizione alle riforme strutturali e la contrazione del Pil, c’è il rischio che il governo italiano, alla fine, piuttosto che continuare lungo un sentiero di austerità prolungata e recessione, decida di uscire dall’eurozona. In questo caso, si passerebbe a una svalutazione della valuta e un ritorno alla crescita più rapido.
Il calo delle rendite dei bond nelle prime settimane del 2012 ha attenuato la pressione esercitata sui leader della Ue perché trovino una risoluzione sulla crisi dell’eurozona. Ma i fondamentali non sono cambiati. È solo una questione di tempo prima che la performance italiana spinga gli investitori a sollevare dubbi, di nuovo, sulla solvibilità del Paese. L’unico modo per assicurare il futuro dell’Italia nell’eurozona è ritornare alla crescita, ma è improbabile che i leader della Ue riescano a guadagnare tempo sufficiente perché questo accada.
*Senior economist per l’Europa occidentale e l’eurozona di Roubini Global Economics
Twitter: @economistmeg