Nel capitalismo selvaggio i soldi li fa la banca del Far West

Nel capitalismo selvaggio i soldi li fa la banca del Far West

CHICAGO – Il nome ai più non dice nulla, ma Wells Fargo è oggi la più grande banca americana per capitalizzazione di borsa. Per di più, in un momento nero per le banche americane, l’istituto nato a San Francisco a metà del 19 esimo secolo sembra essere l’unico in grado di realizzare profitti. I numeri dell’ultimo quadrimestre del 2011 parlano chiaro: la redditività del capitale proprio, (Roe), è stata del 12%, ben superiore al ritorno conseguito da qualsiasi altro colosso bancario come Jp MorganChase, vicina all’8%, o Bank of America (BofA), ferma a un misero 3 per cento.

Stessa situazione per gli utili dopo le imposte realizzati dai big del credito. Battendo le previsioni degli analisti finanziari, Wells Fargo ha registrato nel 2011 un risultato netto di 15,9 miliardi di dollari; 4,1 dei quali soltanto nell’ultimo trimestre. Al contrario, lo stesso giorno Citigroup ha pubblicato dati che mostrano una riduzione degli utili, per lo stesso periodo, dell’11 per cento. Il medesimo copione si è ripetuto poi per JP MorganChase che ha visto i suoi utili erodersi del 23 per cento rispetto all’anno precedente.

Ma a colpire maggiormente gli analisti è il modello di business adottato da Wells Fargo basato principalmente sull’attenzione per il traditional banking invece che sull’attività di trading o sull’assunzione di elevati rischi di mercato attraverso titoli strutturati. Ma c’è di più. In un recente articolo sulla rivista Forbes la giornalista finanziaria Halah Touryalai individua nella tradizione dei leader dell’istituto uno dei punti cardine del suo successo. Tutti i suoi numero uno hanno fatto un percorsa ben diverso dai classi investment bankers come l’ex amministratore delegato di Merrill Lynch, John Thain, che durante il momento cruciale della crisi spese 35mila dollari per arredare il proprio bagno. La conferma viene da John Stumpf, attuale Ceo di WellsFargo, nato e cresciuto su una fattoria del Midwest, quella parte a nord degli Stati Uniti incastrata tra le due coste, dove da giovane si svegliava ogni mattina alle 4.30 per aiutare suo padre a raccogliere uova, dopo scuola mungeva le mucche, si è diplomato con bassi voti e ha iniziato la carriera in banda dal gradino più basso.

L’istituto di San Francisco è sempre stato considerato come “la banca del West” – ancora oggi all’interno della sede di san Francisco sono appesi al muro quadri con le facce dei “most wanted” – nata sull’onda della corsa all’oro californiana a metà dell’Ottocento e nota già a quei tempi per la velocità dei servizi offerti. Non a caso il suo simbolo rimane una diligenza trainata da sei cavalli, un ricordo dei tempi in cui la banca percorreva un raggio di 3mila miglia più velocemente di qualsiasi altra organizzazione.

Oggi come allora rimane l’attenzione al servizio e al cliente individuale. Dopo la crisi dei sub-prime del 2008 Wells Fargo, invece di assumere schiere di esperti di marketing per re-inventare l’immagine della banca, ha ammesso il suo ruolo nella crisi dei mutui e nel luglio del 2011 ha pagato una prima tranche di indennità ad alcuni dei suoi clienti dal valore di 85 milioni di dollari. Nel tentativo di riscattarsi la banca ha anche inaugurato centri itineranti in cui esperti di ristrutturazione del debito sono gratuitamente a disposizione di individui e famiglie la cui casa è stata pignorata. Non che l’istituto di San Francisco abbia agito per spirito caritatevole.

Aiutare il maggior numero di famiglie a rientrare in possesso delle abitazioni divenute di proprietà della banca, oltre che a un indubbio ritorno di immagine per l’istituto, ha infatti la potenzialità di ridare valore agli immobili e alle aree rioccupate. Senza dubbio marketing ma dai risvolti pragmatici per individui o famiglie colpite dalla crisi. Non è infatti un caso che oggi Wells Fargo sia in parte considerata come il minore dei mali tra le grandi banche e che il settore del community banking, ovvero di quel dipartimento della banca che concede piccoli prestiti a livello locale, inclusi i mutui, abbia aumentato il suo giro di affari di un  trenta per cento rispetto al 2010.

Un successo che non è passato inosservato. Negli ambienti finanziari gira voce che Warren Buffet, il mitico finanziere di Omaha, da anni uno dei maggiori azionisti dell’istituto di San Francisco, ha da poco aumentato la sua partecipazione al 7,7 per cento, una quota che vale circa 12 miliardi di dollari. Un investimento che riaccende anche il dibattito sull’opportunità della reintroduzione di una stretta separazione tra banche d’affari e banche tradizionali. Differenziazione avversata da molti analisti a causa della ridotta redditività dell’attività bancaria tradizionale. Ma Wells Fargo e il proverbiale intuito di Warren Buffet indicano che tale preoccupazioni potrebbero non essere così fondate.

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