Le immagini della città fantasma di Sesena, borgata a 45 minuti dalla città di Madrid simbolo dei fasti d’epoca zapateriana (non è il mesozoico ma solo una decina d’anni fa) e della speculazione immobiliare grazie alla quale un trionfio Zapatero un giorno annunciò il famoso sorpasso sull’Italia, ricordano molto l’ambientazione di un film western. Case e strade fantasma in cui non vive (e non può vivere) più nessuno. La crisi terribile che attraversa il Paese iberico ha infatti colpito proprio la punta di diamante di quella ricchezza spagnola, ovvero la compravendita di immobili che dall’anno della bolla speculativa (2007) non ha più cessato di registrare cali vertiginosi (- 28,6% delle transazioni nel 2008, – 24,9% nel 2009). In quest’ultimo anno il settore immobiliare ha segnato una flessione del 17,7% rispetto al 2010 secondo i dati diffusi dall’Istituto Nazionale di Statistica spagnolo (Ine). Molti poi, vedendo il premier conservatore appena in sella Mariano Rajoy alle prese con la peggiore recessione economica del dopo guerra, avranno creduto di rivedere una versione postmoderna e rimaneggiata dell’impavido Don Chisciotte, questa volta alle prese non coi mulini a vento ma con un’intrattabile congiuntura economica caratterizzata da una disoccupazione record di quasi 5,3 milioni d’individui, il 23% circa della popolazione attiva (cifra peraltro destinata a crescere nel 2012 secondo le stime dell’Istituto nazionale del lavoro spagnolo, l’Inem).
Di fronte a una catastrofe di tali proporzioni molti si aspettavano la classica manovra ‘lacrime e sangue’. Eppure la fisionomia della ‘reforma laboral’ appena approvata dal governo di Mariano Rajoy ci ricorda quella Spagna che abbiamo sempre ammirato: giovane, snella, dinamica e che ora si affida a una manovra improntata alla flessibilità, alla riduzione dei costi di licenziamento e dell’economia sommersa. Un esempio sono le misure varate per le piccole e medie imprese (Pme) che costituiscono l’ossatura del Paese. Le Pme fino a 50 dipendenti che decidessero di assumere con contratto a tempo indeterminato un lavoratore con meno di 30 anni avranno diritto a una deduzione fiscale pari a 3.000 euro. Assieme al compenso il lavoratore potrà percepire il 25% del sussidio di disoccupazione mentre l’azienda che lo ha assunto per un anno potrà sgravare dalle tasse il 50% del suo costo. La chiave di volta della riforma del mercato del lavoro consiste soprattutto nella possibilità per le imprese spagnole di tagliare nettamente i costi dei licenziamenti che già gravano oltremodo sul bilancio. Per spiegarla la vicepremier e portavoce dell’esecutivo, Soraya Sanz de Santa Maria, non ha fatto ricorso alle lacrime ma alla metafora biblica del “prima” e del “dopo” il che vuol dire che, almeno sulla carta, la riforma getta le basi per una crescita futura e mira a rivoluzionare la legislazione del lavoro.
Una delle principali novità della manovra di Rajoy è proprio il taglio dei costi dovuti ai licenziamenti senza giusta causa. Questi ultimi sono passati dai 45 giorni per anno lavorativo a 33 giorni per un totale di 24 mesi (rispetto agli attuali 42). In Europa pochi però hanno fatto caso a un tema centrale della riforma di Rajoy che farà molto discutere: la demolizione del tabù dell’intoccabilità dei dipendenti pubblici (circa 3,13 milioni in Spagna). Con la riforma si potrà licenziare per ragioni economiche e dietro adeguato indennizzo (20 giorni per anno lavorato per un massimo di dodici mensilità) più facilmente qualora gli enti, le organizzazioni o le entità del settore pubblico in questione abbiano accumulato almeno tre trimestri di bilancio consecutivo in deficit, e ciò senza le lunghe e costose trafile presso le autorità giudiziarie competenti. La misura è infatti prevista dagli “expedientes de regulación de empleo” (Ere). A farne le spese potrebbero essere circa 685.000 dipendenti che non risultano funzionari, ma i cui contratti sono regolati dal normale diritto del lavoro. Scure anche sui dirigenti delle imprese pubbliche (circa 4.000 in Spagna) i cui stipendi saranno tagliati tra il 25 e il 30% e che non potranno comunque superare i 105.000 euro annui per quelle grandi, gli 80.000 euro annui per le medie e i 55.000 euro annui per le piccole. Le indennità inoltre saranno collegate al raggiungimento di determinati obiettivi economici mentre le indennità di licenziamento saranno pari a 7 giorni per anno lavorativo e di un massimo di 6 mensilità. L’indennità inoltre non sarà percepibile nel caso in cui il dirigente in questione sia stato ad esempio reintegrato in un precedente incarico nella pubblica amministrazione. Insomma niente di trascendentale ma di una luminosità ed efficacia sconcertante. In pratica se dirigi un azienda nel settore pubblico e vai sotto, vai subito a casa, invece di continuare a sperperare denaro pubblico a spese dei contribuenti. Stessa cosa per i dipendenti pubblici che vi lavorano, che per questo motivo dovranno essere estremamente vigili e soprattutto i primi ad interessarsi a che la loro azienda non vada a rotoli.
Se si pensa che, in Italia, nel solo 2010, l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche (-71.999 milioni di euro) è stato pari al 4,6% del Pil (dati Istat) e che la media di dipendenti pubblici per abitante è di 54 ogni 1000 abitanti (dati Ocse-Puma) e che corrisponde grossomodo alla popolazione complessiva dell’Irlanda (quasi 4 milioni di individui), se in Italia venisse approvata una misura simile non solo fallirebbe gran parte degli esercizi del settore pubblico (che spesso sperperano e vivacchiano senza produrre, con grandi sacche di incompetenza) ma anche l’economia del nostro Paese ne trarrebbe complessivamente beneficio. Forse anche in questi tempi bui, come già in passato, ci tocca imparare qualcosa dalla Spagna.