Non lo dice adesso che sono passati vent’anni e una revisione critica di quei fatti appare fisiologica, prima che doverosa. Lo scriveva, unico, già allora, quando i giornalisti erano i “cantori” del pool di toghe milanesi guidato da Antonio Di Pietro. «Tangentopoli è una falsa rivoluzione e i magistrati finti eroi che volevano accrescere il potere della loro casta». Sotto la barba ispida e nera e lo sguardo acuto di Frank Cimini sono passati trent’anni di cronaca giudiziaria milanese. Tra i capitoli più turbolenti, “Mani Pulite”.
Cimini fu il primo a prendersi una querela dai magistrati che indagavano sulla corruzione. «Il pool mi chiese 400 milioni per un articolo pubblicato nel 1993 sul Il Mattino intitolato “Latitante, ripassi domani” in cui spiegavo che i pubblici ministeri non volevano interrogare un manager della Fiat perché temevano raccontasse le tangenti all’ombra dell’azienda torinese, verso la quale la Procura mantenne sempre un trattamento di favore. Persi in primo grado, ma vinsi in appello». Per Cimini ci sarebbe un “epitaffio” efficace in grado di commemorare Tangentopoli. «L’unico modo serio e paradossale di celebrare quest’anniversario sarebbe apporre una targa con incise le parole intercettate dal Gico della Guardia di Finanza al banchiere Francesco Pacini Battaglia: “A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato, si pagò per uscire da Mani Pulite”».
Perché proprio quelle parole per ricordare un fenomeno complesso come Tangentopoli?
Mani Pulite è caratterizzata da una serie di imputati, tra i quali lo stesso Pacini Battaglia, Prada, Redaelli, che erano difesi dall’avvocato Giuseppe Lucibello, intimo amico di Di Pietro. Nell’ intercettazione si faceva riferimento all’unica disastrosa operazione finanziaria compiuta da Pacini Battaglia a vantaggio del costruttore Antonio D’Adamo, che a Di Pietro aveva regalato un cellulare e una macchina.
Di Pietro venne però assolto per quella vicenda dopo essere stato indagato dalla Procura di Brescia per concussione
Fu prosciolto perché l’Anm, per la prima e unica volta nella sua storia, si schierò con un indagato, ed era Di Pietro, che non si poteva toccare. Al di là dell’esito giudiziario, ci sono dei fatti storici che lo stesso pubblico ministero non ha mai smentito: il prestito di 100 milioni di lire ricevuto da Giancarlo Gorrini e poi restituito dal magistrato in una scatola delle scarpe, il figlio del magistrato che lavorava per lo stesso Gorrini, i vestiti che Di Pietro comprava in una boutique di Porta Venezia e il costruttore D’Adamo pagava. Questo era l’uomo simbolo di Mani Pulite.
Da dove arriva quella che lei inquadra come l’onnipotenza di Di Pietro e dei magistrati che lo affiancavano? Come nasce Mani Pulite?
Mani Pulite è potuta scoppiare per un’anomalia tutta italiana. I partiti si erano molto indeboliti perché avevano delegato completamente alla magistratura la soluzione della vera emergenza di quegli anni, il terrorismo. La magistratura acquistò un enorme credito verso i politici che, in quegli anni, si erano dimostrati incapaci di dare una risposta agli “anni di piombo” ed erano impegnati a ingrassare alle spalle degli imprenditori.
Ma prima del 1992 la politica non era corrotta? E perché la magistratura non perseguiva i politici corrotti?
Prima del 1992 le notizie di reato c’erano, eccome, ma si faceva finta di niente per due ragioni. La prima era di politica internazionale. Fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino, le forze politiche italiane costituivano un blocco molto unito, impossibile da scalfire. La seconda era quella a cui accennavo prima: la politica era un potere forte che s’indebolì in seguito all’incapacità di trovare una soluzione politica per la madre di tutte le emergenze, il terrorismo. Certamente è innegabile che la politica “facilitò” il lavoro della magistratura perché era largamente corrotta.
Nella sua azione contro la corruzione, la magistratura usò metodi oggi riconosciuti da molti come non rispettosi della Costituzione. È d’accordo?
È vero. Il pool fece violenza sulla Costituzione. Mi ricordo quei magistrati andare in televisione e parlare senza contraddittorio, da eroi intoccabili. Si verificò, inoltre, un uso spropositato della custodia cautelare, e si registrarono tanti episodi di arroganza e mancanza di umanità. Uno su tutti: quando Borrelli negò all’indagato Pillitteri di andare ai funerali del cognato Bettino Craxi nel 2000.
Il comportamento dei magistrati è colpevole anche nella rilettura di alcuni suicidi di detenuti eccellenti?
Raul Gardini, che si tolse la vita, fu trattato come un delinquente. Chiese di poter essere interrogato, ma non gli venne concesso. A differenza di quanto accadde per Romiti e De Benedetti che ebbero questa opportunità. Cusani, che non aveva incarichi in Montedison, fu condannato al doppio della pena rispetto a Carlo Sama, dotato di poteri a lui ben superiori, perché non collaborò. Nacque in quegli anni l’idea di premiare chi collaborava coi magistrati. Alcuni indagati che non collaborarono arrivarono a togliersi la vita.
Perché la magistratura esercitò quelli che definisce abusi di potere?
Perché, a parte Di Pietro, che agiva per sua vanità e tornaconto personale, gli altri volevano accrescere il potere della casta, arrivare a governare il paese. Tanto che Borrelli, a un certo punto, disse: “Se il Presidente della Repubblica ci chiama per governare, noi dobbiamo andare”. Nella sua opera fu aiutata anche dagli avvocati che, pur di ottenere le parcelle milionarie, si vendevano alla Procura i loro assistiti. Tanti di questi legali poi sono diventati garantisti, ma allora funzionava così, quello era il clima.
Prima ha detto che alcuni imprenditori furono salvati. Chi erano e perché gli si risparmiò l’umiliazione del carcere?
Cominciamo dalla Fiat, che era intoccabile. Andò così. Agnelli, che allora non aveva poteri formali all’interno dell’azienda, disse: “Dobbiamo uscirne”. Allora Romiti si presentò a Di Pietro e, in un memoriale, elencò le tangenti che la Fiat aveva pagato, ma, come poi emergerà da altre indagini, quello rappresentò l’inquinamento probatorio più clamoroso di Mani Pulite perché erano più le tangenti nascoste da Romiti che quelle rivelate. Nei giorni seguenti, si svolse una riunione negli uffici di Borrelli, a cui partecipò anche l’avvocato Giandomenico Pisapia, il papà di Giuliano, legale dell’azienda, e dal quel momento le indagini si fermarono. La stessa cosa accadde per De Benedetti, che presentò un memoriale in cui ometteva molte cose, ma si salvò.
Parte della vulgata su Tangentopoli, alimentata anche da una lettura degli eventi di Berlusconi, racconta che le “toghe rosse” risparmiarono il Pci-Pds. Come andò?
Questa delle “toghe rosse” è una becera leggenda berlusconiana. La verità è che i magistrati e in particolare Borrelli, uomo molto intelligente, sapeva che se si fosse indagato su tutte le forze politiche il Parlamento si sarebbe compattato contro la magistratura, avrebbe votato l’amnistia e i pm sarebbero andati a casa. L’unica che provò a indagare fu Tiziana Parenti ma tutto il pool la bloccò e chiese al gip l’archiviazione per Marcello Stefanini, il tesoriere diessino. Il gip si oppose all’archiviazione e invitò i pm a indagare sui rapporti tra Greganti e i vertici del partito, ma loro non fecero nulla.
Siamo a un bilancio. Quali sono stati gli esiti di Tangentopoli?
Fu una falsa rivoluzione. Quella vera la può fare solo la politica, i processi penali non trasformano la società. Ad alimentare questo falso mito contribuì la stampa perché gli editori erano sotto schiaffo del pool. In Italia nessuno ha dei bilanci puliti e venne sancito un patto tra editori e magistrati. Noi vi sosteniamo mediaticamente, voi ci salvate. Fino all’avviso di garanzia a Berlusconi, che cambiò le cose perché i suoi giornali si rivoltarono contro il pool, ero la sola voce critica in Procura. Litigavo spesso con D’Ambrosio, che pure stimavo.
Oggi Gherardo Colombo va nelle scuole e predica che va cambiata la società civile attraverso un’assimilazione delle regole. Ma anche allora la società civile sembrava pervasa da un moralismo anti – corruzione.
La società civile non esiste ora e non esisteva allora. Il popolo si entusiasmò per il regicidio , ma poi ogni italiano, quando può, se ne frega e non paga le tasse. In Italia non c’è cultura delle regole. A Colombo, che ha scritto un libro intitolato “Farla Franca: la legge è uguale per tutti?”, io dico: l’hanno fatta franca gli imprenditori perché la magistratura li ha salvati; l’ha fatta franca Di Pietro perché per molto meno altri sono andati in galera. I magistrati facciano i magistrati, non hanno credibilità per dare lezioni di morale a nessuno.