Non passa giorno senza che una fondazione bancaria o qualche nuovo, scalpitante socio di Unicredit non faccia trapelare qua e là l’ambizione per uno o più posti nel consiglio di amministrazione di Unicredit. Il cda in carica, presieduto da Dieter Rampl, scade l’11 maggio, con l’assemblea che approva il bilancio 2011. La composizione del nuovo consiglio discenderà da quella dell’azionariato così come si è riconfigurato dopo l’aumento di capitale da 7,5 miliardi appena concluso.
Un’identità precisa della compagine sociale emergerà probabilmente a ridosso dell’assemblea, ma già la prossima settimana arriveranno i primi aggiornamenti. Sul mercato ci si attende una riduzione di uno-due punti percentuali del peso complessivo delle fondazioni (intorno al 10-12%) e qualche aggiustamento non significativo fra i soci privati italiani (Del Vecchio, Maramotti, Pesenti), con la comparsa di qualche nome nuovo (Della Valle, Caltagirone). A fare la vera differenza sarà la rilevanza degli istituzionali, siano essi fondi sovrani (Dubai, Libia, forse Singapore) o fondi di investimento americani (Blackrock e Capital Research and Management), e degli azionisti tedeschi. I rumor segnalano anche la presenza, tramite gestori istituzionali svizzeri, di investitori privati vicini al presidente kazako Nursultan Nazarbayev. Le sorprese, comunque, non mancheranno su tutti i fronti.
La composizione del futuro cda darà il la al nuovo corso di Unicredit: nuovo piano industriale e razionalizzazione del gruppo. Il pallino è in mano al presidente Dieter Rampl che sta sondando gli azionisti ma anche al comitato governance, che formulerà le proposte sulla dimensioni del nuovo cda (fissato a 23 membri dall’assemblea del 2009 ma attualmente composto da 20 amministratori).
Il dibattito fra gli azionisti italiani, fondazioni o soci privati, brilla per pochezza: tutti a far ressa per avere uno o più posti. Dalla Crt alla Cariverona, passando per le fondazioni più piccole (Modena, Cassamarca, Bds), si litiga per un posto fisso ai piani alti. L’attuale vicepresidente Fabrizio Palenzona, espressione della Crt, si sta dando da fare perché la norma sulle incompatibilità sui doppi incarichi, introdotta dalla manovra di dicembre, venga interpretata in modo riduttivo: così riuscirebbe a mantenere la poltrona in Unicredit e quella in Mediobanca. Ma pare anche che starebbe lavorando per sostituirsi a Rampl alla presidenza della banca o comunque per imporre una presidenza italiana, mentre nel frattempo spinge perché qualche suo amico imprenditore ottenga una rappresentanza in cda, direttamente o per interposto consigliere.
Le manovre di Palenzona sono, però, solo la punta di un iceberg di velleità da parte delle fondazioni socie. Avendo raccolto risultati scadenti dai propri investimenti, e in qualche caso avendo annichilito il patrimonio che avrebbero dovuto salvaguardare, i notabili di questi enti cercano oggi di difendere la residua influenza nelle nomine a valle del gruppo per conservare credito agli occhi delle proprie costituency. Dopo che Unicredit ha dovuto fare appello alla comunità finanziaria internazionale per rimpolpare il suo patrimonio, la sensazione è che siano in molti a non volere prendere atto della nuova situazione, e perciò si agitano per essere accolti nel cosiddetto “salotto”, come se Piazza Cordusio fosse un businessmen’s club e non un’istituzione “di interesse sistemico” (Sifi) con circa 1.000 miliardi di attivi.
Il voto del nuovo cda di Piazza Cordusio sarà anche un test importante per la credibilità delle linee guida sulla professionalità degli amministratori bancari, varate dal governatore Ignazio Visco nei primi giorni di gennaio. Perciò, nelle ultime settimane, dalla Banca d’Italia sono arrivate indicazioni per un consiglio più snello rispetto all’attuale, e soprattutto più consono a un modello di public company internazionale: la banca ha bisogno di di organi di gestione e di controllo all’altezza delle sfide, che rinvigoriscano la sua reputazione sul mercato. Ha bisogno, cioè, di un board formato da amministratori con profili e competenze adeguati a un gruppo presente in 22 paesi con 160mila dipendenti, mentre oggi è evidente il peso abnorme di uomini più o meno riconducibili alle fondazioni bancarie, consiglieri in palese conflitto di interesse e collezionisti vari di poltrone. La partita comunque è ancora aperta. E non è detto che si chiuda nel modo migliore per tutti coloro che hanno investito miliardi di euro convinti che qualcosa è cambiato in Piazza Cordusio.
Twitter: @lorenzodilena