questo articolo del professor Miche Boldrin è stato originariamente pubblicato da linkiesta il 29 dicembre 2011. Conserva secondo noi tutta la sua attualità, e per questo ve lo riproponiamo.
La fase due del governo Monti è in arrivo. Così dicono tutti, quindi assumiamo sia vero e proviamo a fare una riflessione su uno dei temi più scottanti che, volente o nolente, questo governo dovrà affrontare: quello del “mercato del lavoro”. Sotto questa dicitura si annida un nugolo di questioni complicate e controverse attorno alle quali, da quasi un secolo, la società italiana si divide in due fazioni incapaci d’intendersi e di trovare un qualche compromesso. Le tragedie che lo scontro quasi secolare su chi “comanda” nel, e su come funziona il, mercato del lavoro italiano hanno causato – dall’avvento del regime fascista negli anni ’20, sino alla fiammata terroristica degli anni ’70 – ci ricordano che si tratta di un terreno minato toccando il quale si rischia, letteralmente, di morire. D’altro canto, l’orrenda realtà odierna – un tasso d’occupazione fra i più bassi in Europa, una scandalosa diseguaglianza nel trattamento riservato ai protetti rispetto a quello per i non protetti, l’apparentemente inarrestabile decrescita della produttività del lavoro e dei salari reali, la crescente fuga dal mercato del lavoro nazionale di imprese altamente innovative assieme a quella, oramai massiccia, dei giovani talenti – non può non spingerci a cercare di sminarlo questo terreno. Proviamoci, cercando di guardare all’intera questione da un altro punto di vista.
Chiarisco subito che, come ho menzionato in un precedente intervento, un’unica tipologia di contratto di lavoro applicabile a tutti i lavoratori dipendenti e che permetta la licenziabilità anche per motivi economici, costituisce un passo essenziale nella costruzione di un mercato del lavoro che permetta di aumentare sia il tasso di occupazione che i livelli dei salari reali. Per la stessa ragione ritengo impossibile avere un mercato del lavoro funzionante se non si elimina l’attuale istituto della Cig (Cassa integrazione guadagni) sostituendolo con un’assicurazione pubblica contro la disoccupazione ottenuta adattando alla realtà nazionale uno dei tanti modelli che, nel Nord Europa, funzionano oggi adeguatamente.
Ciò che conta è il principio di fondo: l’assicurazione pubblica contro la disoccupazione deve applicarsi a tutti, deve essere finanziata con i contributi di tutti e deve essere associata ad interventi di formazione professionale e ricerca occupazionale che forniscano ai lavoratori italiani sia la capacità di, che gli incentivi per, adattarsi ai cambiamenti della domanda di lavoro. Non vi è dubbio alcuno, inoltre, che occorra demandare alla contrattazione aziendale la determinazione dell’organizzazione del lavoro e dei livelli salariali specifici ad ogni singola impresa. A fronte del cambiamento tecnologico continuamente in atto e dell’enorme diversificazione di figure professionali e tipologia aziendale tipica oramai di ogni settore produttivo, è inconcepibile pensare che un unico contratto nazionale settoriale possa servire alla bisogna. La realtà dei nostri partner europei mostra in modo inequivocabile che ai contratti nazionali vanno demandate solo funzioni generali di protezione del lavoratore contro trattamenti discriminatori, lasciando il resto alla contrattazione territoriale e possibilmente aziendale.
Ed infine la questione da sempre più ostica: un’assicurazione decente contro il rischio di disoccupazione deve esistere per poter accettare come possibile il licenziamento per motivi economici. Il reintegro, che permette al pretore del lavoro di forzare un’azienda a riassumere un lavoratore licenziato, è un istituto che fu utile in un passato buio ma che ha oggi l’unico effetto di far licenziare in anticipo (non assumendoli) migliaia di lavoratori potenzialmente meritevoli e di far scappare dall’Italia sia le imprese più dinamiche che i lavoratori più produttivi. Vietare per legge la meritocrazia ha non solo l’effetto d’indurre molti a fare il meno possibile ma anche quello di far che se ne vadano quelli che vogliono veder riconosciuto il proprio merito.
Tutto questo risulta così totalmente acquisito sulla base dell’esperienza degli altri paesi europei – specialmente di quelli del Nord Europa dove sia i tassi di occupazione, che i salari reali, che le condizioni generali dei lavoratori dipendenti sono molto migliori delle nostre – che solo il pregiudizio ideologico non informato dai fatti giustifica che in Italia si continui a considerare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori come la verità rivelata che invece non è.
Ma tutto questo, occorre riconoscerlo, soffre di un grave limite: chiede cambiamenti, sia culturali che materiali, ad una sola “parte” socio-economica mentre non chiede alcun cambiamento all’altra “parte”. E questa è una ricetta per il disastro già sperimentato svariate volte. Perché, piaccia o meno ed a me non piace, come le brevi allusioni storiche che ho usato da incipit dovrebbero ricordare, in Italia continuano ad esistere due “parti” socio-economiche e financo politiche, l’una contro l’altra armate. Perché tali parti abbassino le armi e siano disposte a trovare un compromesso ragionevole e non pasticciato sul mercato del lavoro occorre che entrambe le parti cedano alcuni privilegi. Occorre cioè che si riformi l’intero mercato del lavoro italiano d’un solo botto e non solo quella parte di esso che ha a che fare con il lavoro dipendente privato.
Questo vuol dire, per parlare fuori dai denti, che non è possibile depotenziare l’articolo 18 se, contemporaneamente, non si svuotano d’ogni potere monopolistico gli ordini e le associazioni di professionisti, commercianti ed artigiani. Questo vuol dire, sempre parlando fuori dai denti, che non è possibile introdurre il diritto a licenziare per motivi economici i lavoratori del privato se lo stesso non si applica a quelli del settore pubblico, a partire dai dipendenti ministeriali. Questo vuole anche dire che se rendiamo possibile licenziare i dipendenti quando non tornano i conti, deve anche essere possibile “licenziare” le imprese ed i loro manager nelle medesime circostanze. In Italia oggi questo vale, senza dubbio alcuno, per le piccole e medie imprese ma non vale e non è mai valso per le grandi e per chi le gestisce. Se Fiat oggi ha la capacità di alterare i rapporti contrattuali con i propri dipendenti è perché questi sanno che, a differenza del passato, se Marchionne fallisce non arriverà nessun ministro a salvarlo. Quanto vale per Fiat deve valere per tutte le grandi aziende italiane (banche incluse) se vogliamo che i loro dipendenti accettino quanto viene loro chiesto. Brutalmente: l’unica riforma del mercato del lavoro italiano che può funzionare è quella che, simultaneamente, riduce il potere di Cgil-Cisl-Uil e di Confindustria e delle dozzine di altre associazioni che siedono “dall’altra parte”.
*Department of Economics – Washington University in Saint Louis