Sulla poltrona di velluto rosso, accanto al tavolo in noce intarsiato in stile Luigi XIV, don Mimmo non siede più da ormai cinque anni. E oggi, quel trono dalle rifiniture dorate, dove lo scettro era un bastone di legno con cui, brandendolo, ordinava delitti o graziava gli infami, è solo un cimelio. Ville dove un tempo venivano pianificate esecuzioni spietate, ristoranti dove i padrini si riunivano per festeggiare – a pesce fresco e champagne – ogni operazione andata a buon fine. Appartamenti di lusso acquistati con i soldi macchiati del sangue di commercianti strangolati dall’usura.
Sono in tutto 807 i beni immobiliari attualmente confiscati alla mafia in Lombardia, terra di affari e conquista per le organizzazioni criminali italiane, ’ndrangheta al primo posto. Una regione che, oltre ad avere il primato nel Nord, risulta essere al quinto posto per numero di sequestri dopo Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, le terre d’origine delle mafie. Sono ville, interi palazzi, appartamenti, cascine e persino fattorie.
Un patrimonio enorme: solo a Milano e Hinterland, dove si contano 448 confische, secondo l’ufficio Demanio del Tribunale di Milano il “tesoro” sarebbe stimato negli ultimi cinque anni intorno ai 60 milioni di euro. Una media di dodici milioni di euro all’anno. Solo negli ultimi due anni – secondo i dati resi noti dal ministero degli Interni – sono stati sequestrati beni per un valore di 805 milioni e confiscati per 43 milioni.
Ma, perché il “tesoro dei boss” possa venire finalmente riutilizzato per scopi sociali, in una giusta legge del contrappasso, occorrono in media oltre cinque anni. A volte anche dieci. L’iter, infatti, è lungo e complicato: dopo il sequestro da parte delle forze dell’ordine, in seguito ad arresti o operazioni di autorità giudiziaria, bisogna attendere la chiusura del processo. E, se è stato fatto ricorso, aspettare i tre gradi di giudizio. Quindi si arriva alla confisca. A questo punto, se non è stata fatta specifica richiesta da parte di Prefettura o forze dell’ordine, i beni passano nelle mani del Comune di competenza. Che può decidere di assegnarli attraverso un bando a cooperative, associazioni, strutture protette.
E oggi, per rendere più veloce e sicura la riassegnazione, voluta dal ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri, è appena entrata ufficialmente in vigore l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Il nuovo organo, approvato lo scorso novembre dal Consiglio dei Ministri, aiuterà l’autorità giudiziaria nella gestione del patrimonio immobiliare dal momento del sequestro dei beni fino alla confisca e quindi alla riassegnazione.
E così capita, per esempio a Buccinasco, che la Croce Rossa abbia sede in una villa lussuosa e super blindata, con vasche da bagno e rubinetti in oro. O che la pizzeria di via Bramante, dopo essere stata il luogo in cui i padrini si incontravano e pianificavano strategie di mafia, sia tornata alla comunità dopo cinque anni di “battaglia”, convertita in una pizzeria sociale grazie all’impegno dell’associazione Libera.
Un provvedimento, quello sulle confische dei beni ai mafiosi, pensato per colpire al cuore il business della criminalità organizzata e pagato con il sangue, nel 1982, dal senatore comunista siciliano Pio La Torre, che non fece mai in tempo a vedere la sua proposta concretizzata in legge, quattordici anni dopo.
La mappa degli immobili confiscati alla mafia è vasta e copre quasi tutta la regione. Le cosche, specialmente quelle calabresi, come fosse un Risiko del crimine, hanno piantato bandiera soprattutto in Brianza, nel Comasco e nell’Hinterland milanese. Corsico, San Donato, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio, Cinisello Balsamo. E, poi, ovviamente, Milano, dove si conta un totale di 190 confische.
Il trio Morabito, Bruzzaniti e Palamara, i “re” dell’Ortomercato arrestati ormai cinque anni fa, i Sergi, i Barbaro e Papalia, il potente clan dei Valle e dei Lampada. Sono questi i nomi più frequenti che compaiono nelle pratiche catalogate nella sezione misure di prevenzione. Una delle confische più significative degli ultimi anni è stata la villa di Legnano del boss Cosimo Barranca, arrestato il 13 luglio del 2010 e poi condannato perché ritenuto a capo del vertice della “Lombardia”, la filiale lombarda della ’ndrangheta. Nell’ambito di questa operazione, sono stati recuperati in totale dieci milioni di euro.
Sono soprattutto le famiglie delle cosche calabresi trapiantate al Nord a compare ville nelle loro città d’origine. E, mentre in Lombardia cercano di non attirare l’attenzione con sfarzo e opulenza, mantenendo un profilo basso, al Sud non badano a spese. E per non destare sospetti ricorrono a prestanomi. «Di recente – spiegano dalla Sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano – abbiamo sequestrato una villa, provvista di bunker, del valore di 750mila euro. Era intestata a uno sconosciuto venditore di angurie».
Ma spesso, quando invece questi immobili sono riassegnati attraverso asta giudiziaria, c’è il rischio che tornino nelle mani dei vecchi proprietari, tramite – appunto – prestanomi. O creditori fittizi, che pretendono il pagamento di falsi debiti con gli immobili di proprietà dei boss di turno. C’è addirittura chi continua a investire gli immobili dal carcere. Molti non si rassegnano e impugnano i provvedimenti di sequestro in una lotta spietata che allunga i tempi di passaggio da un grado all’altro della giustizia e rallenta i tempi della riassegnazione. «Le famiglie mafiose mettono in conto l’arresto – spiegano ancora dalla sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale – ma quando colpisci il loro patrimonio, e gli togli tutto, allora sì che si arrabbiano». E diventano pericolosi. Al punto che persino che persino i dipendenti del Tribunale che se ne occupano preferiscono restare anonimi.
Ma le confische non si fermano. E il Tribunale di Milano riesce a sequestrare beni anche all’estero. Un caso ha fatto storia: la villa di Biagio Crisafulli in Francia. Il capo della famiglia siciliana che negli anni Novanta trafficava in armi e in droga a Milano, nel quartiere di Quarto Oggiaro, se l’era fatta costruire con i soldi delle sue attività illecite. “Dentino”, questo il suo soprannome, fece guerra al Tribunale di Milano. Si oppose in tutti i modi per tenersi la villa. Ma alla fine perse la causa.