Una grande banca privata sull’orlo del fallimento, solo una mano possente può riprenderla dalla polvere e sollevarla di nuovo alle altezze della grande finanza, dove nessuno si sporca le mani, l’eleganza è frigida ma inappuntabile e si brinda ai fallimenti altrui.
Da qui prende le mosse Franco Quinto. Commedia di una banca, un testo drammatico dello scrittore svizzero Friedrich Dürenmatt. Situazione all’ordine del giorno, vissuta a più riprese in questi anni, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, dove il gesto ieratico, la possente mano in grado di cambiare l’ineluttabile corso del destino si è materializzata nelle vesti degli stati sovrani. Stavolta però la questione è ancora più grave, profonda, riguarda una dinastia di banchieri, l’ultimo dei quali, il quinto appunto, è costretto dalla crisi a trovare un modo per risolvere la questione, non lasciando ai suoi eredi l’onta della rovina. Dürenmatt tiene a mettere in evidenza che si tratta di una commedia, però tutti i protagonisti fanno del loro peggio per raschiare il fondo della decenza umana, diventando ridicole maschere nere, larve annidate nella muffa del crimine. Franco Quinto è stato messo in scena per la prima volta più di cinquant’anni fa, il 19 marzo 1959, alla Schauspielhaus di Zurigo, ed a fine marzo uscirà in libreria da Marcos y Marcos.
Lo scrittore svizzero, ossessionato dal tema, anzi dal problema della giustizia, cui ha dedicato alcuni celebri romanzi come Il giudice e il suo boia, La promessa e Il sospetto, solo per citare i più famosi (pubblicati in Italia da Feltrinelli), si dedica in questo testo drammatico alla storia di una banca vecchia praticamente quanto la dinastia che l’ha fondata. Cinque generazioni per fondare un impero cui sono serviti il commercio di schiavi, la frode, la corruzione di prelati, il commercio d’oppio. Una rete di criminali si è passata il testimone per cinque generazioni. Non riuscendo però ad impedire lo stato di crisi in cui versano ora, senza attenuanti.
Franco Quinto e sua moglie Ottilia decidono di rischiare ancora un po’, di spostare l’asticella più in alto. Corteggiano un disperato senza lavoro, gli promettono un lavoro in banca. “Mi chiamano Franco il Filantropo”, gli dice il banchiere per convincerlo della probità dell’offerta. Lo sostituirà poco dopo nella bara su cui c’è scritto il nome di Franco Quinto. Uno scambio di persona che nelle commedie classiche, da Plauto in poi, vale l’innesco dell’equivoco e della comicità, qui permette di riconsolidare una posizione di dominio. Il povero Heini Zurmhul è finito in quella bara per servire, a vita, il suo “benefattore” e consentire alla moglie di incassare il lauto indennizzo dell’assicurazione. Le stive dei criminali sono sempre troppo piccole per contenere tutti i cadaveri di cui avrebbero bisogno per continuare a comandare, re o capitani della finanza che siano.
Il grande scrittore e drammaturgo svizzero aveva introiettato la lezione di Brecht non solo e non semplicemente quel motto divenuto poi troppo celebre e abusato “Rapinare banche non è un reato”. Piuttosto nella decostruzione dei meccanismi che consentono al potere di riprodursi oltre le sue crisi cicliche. L’utilizzo dell’espediente tipico del teatro epico, lo straniamento, è uno strumento per mettere lo spettatore di fronte a dei fatti e costringerlo a ragionare non annegando nella trama. E poi anche il mondo di Dürenmatt è pieno di gangster mascherati da uomini d’affari, dirigenti, uomini di successo con i camerieri sempre a disposizione e una vita al di sopra della media.
Metà tragedia e metà farsa, questa “commedia di una banca” è anche un affresco familiare: Franco Quinto e la moglie Ottilia sono senza scrupoli, disposti ad uccidere, a fare a pezzi, solo verso i figli la loro mostruosità si stempera non riuscendo a vedere chi sono realmente i loro eredi, il prodotto dei loro insegnamenti, della loro vita. Ecco il ventre di questo testo assai poco rappresentato e praticamente sconosciuto in Italia: il farsi sempre più immateriali dei movimenti economici si riflette nell’agire umano, lo contamina, la finanziarizzazione, il divenire banca di ogni altro aspetto della vita, dei rapporti familiari porta inevitabilmente alla lotta per la sopravvivenza, al corpo a corpo mortale, anche tra padri e figli.
Lo sapeva bene questo Dürenmatt, la famiglia di Franco Quinto non conosce la possibilità di inginocchiarsi ai tempi nuovi e al proprio declino dei Buddenbrook di Lubecca raccontati da Thomas Mann. Nell’invisibile Svizzera, dove tutto è asettico e funzionale, alla luce del giorno, dove perfino gli eroinomani erano esibiti come trofeo di “tolleranza”, nella Platzspitz di Zurigo, ci si piega a qualunque compromesso pur di tenere la verità dentro le mura di casa, come un qualsiasi paese di provincia. Con i cadaveri dentro gli armadi e i soldi nelle cassette di sicurezza.