Camicia bianca, gilet rosso, girato di spalle con una cuffia in testa. Dalla scorsa settimana sta rispondendo nell’aula bunker di San Vittore alle domande del Pubblico Ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, Alessandra Dolci, in video collegamento da località protetta. È Antonino Belnome, ex capo della locale di ‘ndrangheta di Giussano, oggi collaboratore di giustizia. Per la prima volta dal 15 marzo scorso, Belnome, dote di “padrino” nella gerarchi ‘ndranghetista depone davanti al tribunale di Milano, dopo aver riempito pagine di verbali dal pentimento del 2010. È ai vertici della “società maggiore”, in pratica l’elite delle cosche
Per la prima volta le parole finite sino ad ora solo nei verbali di interrogatorio, dove Belnome si autoaccusa di diversi omicidi e di appartenere alla ‘ndrangheta, sono riecheggiate nell’aula bunker di San Vittore. Antonino Belnome risponde ormai da una settimana alle domande del pm Alessandra Dolci in udienze fiume dalle nove e trenta alle sei di sera. La quasi totalità dei fatti che il boss riporta non arrivano da dichiarazioni de relato, cioè che altri gli hanno riferito, ma da esperienze dirette, e questo fa suonare il tutto ancora più vero e, alla luce di alcune dichiarazioni inquietanti.
Belnome ha deciso di collaborare con la giustizia nel dicembre del 2010, dopo l’arresto avvenuto nel luglio dello stesso anno in seguito alla maxi-operazione “Infinito”. È a cavallo tra dicembre e gennaio che Antonino Belnome scrive un memoriale di 48 pagine, intitolato “Memorie di un ex padrino”, in cui ricompone il puzzle di cariche e regole interne alla mafia calabrese. La DDA guidata da Ilda Boccassini inizia a interrogarlo e il collaboratore riempie pagine di verbali che sottoscrive e conferma nelle recenti udienze.
All’inizio della collaborazione Antonino Belnome si autoaccusa dell’omicidio di Carmelo Novella, avvenuto a San Vittore Olona il 14 luglio del 2008. Belnome è uno degli esecutori materiali dell’omicidio del boss che avrebbe voluto rendere le famiglie di ‘ndrangheta lombarde autonome da quelle calabresi. Chiarisce inoltre nomi e cognomi dei mandanti, anche se precisa che all’epoca non era a conoscenza delle ragioni del delitto «Mi è stato detto – disse Belnome nel corso di uno degli interrogatori davanti a Ilda Boccassini – che il delitto era richiesto dal clan Gallace. Ma nella ‘ ndrangheta certe decisioni non sono mai rese note a tutti gli affiliati». Dinamica, quella di tenere allo scuro gli affiliati su alcune decisioni, che confermerà anche nelle 48 pagine del memoriale e in aula.
È a Roma che il collaboratore di giustizia inizia a comparire in tribunale lo scorso ottobre, e qui inizierà a raccontare anche la presenza delle ‘ndrine sul litorale romano, come confermato poi dalle operazione “Appia” e “Mithos”, che però secondo Belnome, non hanno scalfito interamente la potenza della ‘ndrangheta nel Lazio. In questi giorni il racconto del collaboratore di giustizia sta tenendo banco nell’aula bunker di San Vittore, e lo scorso venerdì è iniziato il controesame da parte degli avvocati della difesa che tenteranno di mettere in discussioni le tesi dell’accusa. I volti nell’aula e dentro le gabbie sono tesi, qualcuno tra i detenuti scherza sulla “infamia” pentito.
Nel racconto di Belnome trova spazio gran parte dello spaccato criminale della ‘ndrangheta in trasferta degli ultimi anni. L’ultimo pentito di ‘ndrangheta in Lombardia fu, negli anni novanta, Saverio Morabito. Poi più nulla fino al “padrino” di Giussano. Dagli esordi all’ortomercato, al rito di affiliazione fino all’ascesa al ruolo di “padrino”. Dopo il padrino, ai vertici della ‘ndrangheta c’è il grado di “crociata” «chi ce l’ha può entrare anche nella massoneria». E solo chi ha i gradi più alti nella gerarchia «può intrattenere rapporti con politici, forze dell’ordine e istituzioni», il tutto «per ottenere vantaggi non per sé ma per la cosca».
Estorsioni e avvertimenti alle aziende che non si piegano ai meccanismi. «Noi riceviamo segnalazioni da parte di persone vicine a noi che gestiscono agenzie immobiliari e sanno chi è in difficoltà e chi si può colpire – spiega Belnome – così noi andiamo. Ci sono soggetti più facili, come per esempio i calabresi che conoscono bene il ‘meccanismo’ e pagano senza bisogno di intimidazioni. Altri invece hanno bisogno di trattamenti più pesanti e per un periodo vengono accantonati». È lui stesso che fa capire come in realtà siano ancora in libertà soggetti dei clan che ancora agiscono sui territori dove sono state individuate le varie famiglie, ma apre anche squarci importanti, e inquietanti sui luoghi di incontro degli affiliati.
Uno dei luoghi prediletti è il Giardino degli Ulivi di Carate Brianza. È qui che il boss incontra spesso gli appartenenti alle famiglie di ‘ndrangheta, prende decisioni strategiche, come per esempio le future estorsioni, armi da acquistare, organizzare i servizi di sicurezza nelle discoteche locali, ma anche appoggi e campagne elettorali a favore di questo o quel candidato. «Lì dietro – rivela Belnome – c’era pure una specie di discarica dove interravano macerie e seppellivano altri materiali».
Ma i luoghi di incontro non si fermano lì. Sono anche presso locali a luci rosse, riconducibili a uno degli affiliati alla locale di Mariano Comense, Claudio Formica, che «aveva questi locali tipo lap-dance. Uno – riferisce in aula Belnome – nei pressi della Fiera Milano e l’altro in zona Garibaldi, sempre a Milano». Ma c’è di più, perchè il collaboratore afferma addirittura di essersi incontrato con altri tre appartenenti alla ‘ndrangheta nel sotterraneo di una scuola, di cui non ricorda il nome ma «a circa dieci minuti da piazza Maciachini», ovviamente a Milano.
Belnome rispondendo in aula alle domande del pm della Direzione Distrettuale Antimafia, mette in discussione anche un particolare importante assunto dall’accusa: cioè l’unitarietà della struttura di ‘ndrangheta lombarda come mandamento unico della mafia calabrese. Il boss di Giussano infatti non è presente al famoso summit di Paderno Dugnano dove si è deciso il nuovo referente dell’organizzazione criminale per la Lombardia. Un ruolo determinante in quella occasione lo avrebbe assunto il presunto boss di Pavia, Pino Neri, che però Belnome nega di aver mai conosciuto personalmente. Una precisazione che, secondo la versione del collaboratore, dipingerebbe come ancora più complessa la macchina organizzativa della ‘ndrangheta in Lombardia, cioè in ottica ancora più microterritoriale che non regionale.