Dieci anni dopo il suo omicidio le idee di Marco Biagi hanno vinto

Dieci anni dopo il suo omicidio le idee di Marco Biagi hanno vinto

Sembra quasi un tragico scherzo del destino, ma colpisce certamente il fatto straordinario che un qualche sblocco nell’aggrovigliato quadro normativo del mercato del lavoro avvenga proprio a dieci anni dal delitto Biagi, quando le Brigate Rosse spensero sulla sua porta di casa il Professore che più si era speso nella ricerca e nella proposta per portare questa delicatissima materia finalmente al passo con i tempi.

Per chi ha conosciuto da vicino il suo lavoro ed ogni tanto viene invitato (come chi qui scrive) a Modena tra i suoi allievi e i nuovi studenti a riflettere su “riformismo e terrorismo”, oggi appare manifestarsi concretamente il motivo profondo della sua lezione civile. Marco Biagi (come tanti altri prima di lui nella sanguinosa stagione degli “anni di piombo”) venne abbattuto perché non solo aveva ragione, quanto perché aveva dimostrato che “un’alternativa era possibile”, che si poteva perseguire con governi e maggioranze di diverso colore, e che si poteva portare gradualmente a compimento.

Un pericolo insopportabile per i conservatori di qualsiasi latitudine, per i sacerdoti della rigidità riservata ai già garantiti , per i nostalgici della lotta di classe e alla lunga per i terroristi rossi decisi a fermare a tutti i costi il riformismo intelligente e i suoi più acuti interpreti. Marco Biagi era un bersaglio designato dalla ostinata campagna denigratoria e di demonizzazione che aveva per mesi preceduto l’assassinìo. E dava molto fastidio perché si era spinto, quasi da esploratore solitario, nel mare aperto della tematica giuslavorista, facendo del “diritto comparato” in tutti i Paesi del mondo la chiave innovativa per sprovincializzare il dibattito nostrano e aprire le finestre verso una complicata modernità che era sciocco e alla lunga impossibile respingere.

C’è poi un altro pregiudizio da sfatare. Anche da morto Marco Biagi è stato demonizzato e denigrato come “l’inventore della precarietà” (e molti giovani sembrano aver recepito questa favola “cattiva”). In realtà il progetto unitario e complessivo del Professore costruiva ben più tutele al precariato, alla mobilità lavorativa e al processo di reinserimento rapido nel mercato del lavoro di quanto non si sia mai poi realizzato. E molte delle sue intuizioni quasi profetiche hanno costituito il terreno del negoziato tutt’ora in corso.

Il riformismo (venato magari, come per Biagi, da una solida e riservata impronta cristiana) è sempre una strada scomoda: perché si muove su sentieri inediti, perché richiede mente aperta e rigore intellettuale, perché si scontra fatalmente con le resistenze corporative, gli interessi sedimentati, i conservatorismi di ogni colore. E combatte con le sole armi della persuasione e del convincimento, sapendo essere “fuori moda” oggi per diventare attuale e decisivo domani. E forse “scovare” i tanti riformisti sconosciuti alle luci del palcoscenico mediatico può essere la “ragione sociale” di un’informazione non conformista e non omologata.

Un’ultima considerazione, amara per il nostro Paese. Perché il terrorismo rosso, pur sconfitto da qualche decennio, è ancora attivo nel settore del lavoro? Perché dopo i delitti Tarantelli, D’Antona e Marco Biagi, la mala pianta della violenza armata si indirizza a questi riformatori del lavoro? Perché il professor Ichino e altri protagonisti della ricerca e della costruzione condivisa di un cambiamento inderogabile sono costretti a vivere da reclusi tra scorte, minacce e cautele? In altri Paesi succede così, oppure, anche sul terreno culturale, siamo ancora dentro una maledetta “eccezione italiana”?
 

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