È la Rosetta di Roma il ristorante del momento. E questo grazie a Lusi e alla smargiassata degli spaghettini al caviale (pesato col bilancino) da 180 euro a porzione, e all’orgia di ostriche, tartufi di mare, aragoste e scampi che ha fatto lievitare il conto sino a oltre 300 euro a testa. Nell’immaginario ittico del piccolo borghese divenuto ricco interpretando i ruoli di corrotto e corruttore non manca mai la cornucopia di pesci ancora palpitanti, pronti a essere divorati dalle fauci vigorose di chi è nel pieno della scalata sociale.
La Rosetta e il suo patron, Massimo Riccioli, hanno strappato il testimone a un altro ristorante di Roma, l’Assunta Madre, abbondantemente citato dai giornali – non tanto per motivi gastronomici, quanto per chi lo frequenta e per le piacevoli occasioni di incontro che pare vi si creino. Se non riportiamo i nomi dei personaggi che hanno contribuito a dargli un simile smalto è solo per la noia di leggerli ancora una volta, dopo la sovraesposizione dei mesi scorsi.
Ma facciamo un salto nel passato, nel fasto degli anni Ottanta: ai tempi della Banda della Magliana, Pippo l’Abruzzese, sul lungomare di Torvajanica, era senz’altro uno dei locali più antropologicamente interessanti del Lazio. Alle pareti, foto autografate di Trapattoni, della Carrà, di Brigitte Nielsen, di Arnold Schwarzenegger col sigaro e i bicipitoni – ripreso mentre cingeva amichevolmente le spalle di Pippo, il patron, che gli arrivava all’altezza del coccodrillo della Lacoste. Un reliquario di celebrità anni Ottanta. Mancavano però le foto del famigerato Enrico De Pedis e dei suoi compagni di avventure: ovviamente non davano lustro al locale benché proprio loro fossero il motore del fatturato. L’aria che si respirava in quegli anni chez Pippo era satura di pistole, cocaina, champagne e aragoste – proprio come nell’iconografia classica, comune alla mala di tutto il mondo.
Nelle recenti spinose vicende di tangenti e corruzione che hanno toccato il cuore inviolabile della virtù del paese, cioè di quel che resta del Pd, abbiamo scoperto – leggendo il verbale di un interrogatorio –, il tema della terribile fatica dei corruttori lombardi per “avere accesso alle cene”. Bisogna aspettare e creare il momento giusto, riscuotere fiducia, superare la trafila, imporsi sulla marea di imprenditori che puntano allo stesso obiettivo. Queste ambite cene si svolgono il giovedì e il venerdì, di rado nel fine settimana, e sono l’atto conclusivo del corteggiamento – perché la corruzione non avviene mai in ufficio. Vanno bene anche i pranzi, ma allora in località di vacanza – tipo Cortina o Porto Cervo o Portofino – raggiunte in elicottero. Ho letto in un verbale lo sfogo di un costruttore: “Ma lei non sa la fatica e il tempo per restare soli. Il corruttore e il corrotto. Insomma, per poter finalmente mettersi d’accordo sul fatto di pagare”. La solitudine si concretizza in tête à tête che si svolgono in ristoranti rigorosamente di pesce. I prediletti dagli affaristi e dagli amministratori pubblici affamati di tangenti sono i luoghi del “trionfo di crostacei”, dell’alzata di ostriche Belon e Fines de claire, dei branzini e degli astici. Primeggia l’abbondanza ed è ritenuto fondamentale esser “coccolati” dal personale – come si direbbe con l’orrendo termine preferito dai pubblicitari più scadenti.
L’alta cucina dei ristoranti stellati o forchettati, quella che minimizza le porzioni e intimidisce con l’allure dello chef, resta invece esclusa dalle pratiche del ritrovarsi socialmente tra arrampicatori e arrampicati, del farsi vedere, del concutere. Non si è mai sentito di tangenti smistate alla Pergola di Heinz Beck o alla Francescana di Massimo Bottura. Questo genere di grandi ristoranti è piuttosto il regno di turisti danarosi che viaggiano con la Michelin sottobraccio, dei cosiddetti gastrofanatici (o foodies), dei pasti con pompa aziendale (l’amministratore delegato, il direttore generale), dei commendatori che vogliono far colpo sulle signorine, delle celebrazioni di doviziosi compleanni e anniversari.
Racconta Tom Wolfe che Clay Felker, il suo direttore al New York, nel 1970 commissionò a Gael Greene, una food columnist, un pezzo dal titolo Come non farsi umiliare nei ristoranti snob. Era la nuova versione di un pezzo, Siberia, che Felker stesso aveva scritto per Esquire dieci anni prima. Vi descriveva con minuzia i luoghi dove si ritrovava il Gotha della mondanità newyorchese. Naturalmente in quei locali notturni e in quei ristoranti andavano anche tanti signori nessuno, cui di solito toccavano i tavoli situati dietro una colonna, vicino alla porta del bagno o della cucina – quelli dove non si vede né si è visti da chi entra e chi esce. Queste zone morte, Felker le aveva definite “Siberia”. “Appena Felker pubblicò l’articolo – scrive Wolfe – il termine si diffuse a macchia d’olio in tutto il Paese. Ancora oggi c’è qualche poveraccio che fa il suo ingresso in questi posti con terrore e disagio, un risentimento pronto a esplodere, il timore verso i caposala che con glaciali sorrisi di benvenuto congelati su volti affilati li scortano al gulag. È questo genere di dettagli sociali che intrigano la mente umana”.
Un po’ quello che succede al Baretto di Milano, ristorante dove abbondano le posizioni svantaggiate, quelle dove essere seduti non porta alcun vantaggio né di visibilità né di vista. Qui, per ottenere un bel tavolo con vista sulla ricca borghesia imprenditoriale, su professionisti celebri ancor più per il valore delle parcelle che per quello delle consulenze, su finanzieri allo sbaraglio e direttori di giornali e signore del Soroptimist e milanesi residenti in Svizzera o a Montecarlo, bisogna possedere un tocco di scaltrezza mondana.
Pochi affari e non si ha notizia di scambi di tangenti al Santa Lucia di Milano, le cui pareti sono lapidi funerarie di un pot pourri del mondo dello spettacolo italiano – soprattutto teatrale. Come nei cimiteri vi compare una gran quantità di morti di fatto, ma ci sono anche le foto di morti viventi, cioè di attori o soubrette defunti nel cuore degli impresari e dei produttori di spettacolo, e perciò dissoltisi anche nel cuore degli spettatori. Ci si va soprattutto per ricordarsi quanto caduco possa essere l’affanno necessario a tenersi sulla cresta dell’onda.
Sin qui, abbiamo appunto parlato di ristoranti famosi, celebrati per virtù sociali o gastronomiche. Ma c’è poi da esplorare l’orizzonte delle trattorie, e quello delle pizzerie, dei locali per i pasti frettolosi di impiegati ticket-muniti, e i luoghi adatti ai pasti degli amanti (per esempio i ristoranti di località turistiche, durante la settimana nelle basse stagioni). Ci si passano le giornate, a osservare lo stato della famiglia italiana o neoitaliana, ci si perde a vedere le nonne, le mamme, i bambini ululanti, i fidanzati che litigano, i vecchi coniugi persi ognuno nei propri fastidi e nelle proprie solitudini. E poi le posture al tavolo, gli arredi, i quadretti regalati da un cliente pittore amatoriale, l’impronta del calcio nella porta a vento che porta in cucina, il genere d’auto parcheggiate fuori dal locale (ricordo, un paio d’anni fa, la visione della muraglia di Hummer appiccicati l’uno all’altro sul marciapiede davanti al Finger’s, un ristorante fusion milanese frequentato da calciatori & veline). Senza dimenticare i tatuaggi collocati nelle parti vedo-non vedo di certe camerierone domesticamente sciantose, come visto in una indimenticabile trattoria dalle parti di Goro; e gli avanzi di boutique messi a servire in tavola al Gold di Dolce e Gabbana; e i piedi gonfi dei vecchi camerieri dei Due Ladroni di Roma, quelli che immagino di notte, dopo la chiusura, mentre avviano la loro vecchia utilitaria e guidano fino a Tor qualcosa, verso mogli disgustate dal loro odore di fritto e di sigarette.
Per non dire dei menu zeppi di stilemi (i nomi tutti in -ino – vedi carpaccino e risottino –, o l’uso selvaggio di articoli determinativi, o l’ossessione elencatoria di ingredienti e caratteristiche), e degli assurdi vasellami che superano in creatività della forma la creatività del contenuto, e che si presume richiedano lavapiatti di apposite dimensioni, e che sia difficilissimo ottenere pezzi di ricambio, come con certe auto sfortunate uscite ben presto di produzione.
Quello che insomma stiamo cercando di sostenere è che i luoghi dove l’umanità si riunisce per mangiare fuori da casa sono una straordinaria miniera di materiale narrativo, un luogo d’indagine sullo stato della nazione e anche della sua corruzione, un palcoscenico dove si mettono in scena le caratteristiche local, global e soprattutto glocal della società.
Recentemente hanno chiesto a Gay Talese, l’inventore del new journalism, da dove comincerebbe per raccontare la New York post 11 settembre. «Dalla cucina di un ristorante,» ha risposto. «New York è la città delle voci straniere e la cucina le raccoglie tutte. Parlerei con i cuochi e gli sguatteri e i camerieri. E poi li seguirei mentre servono di là, in sala. E passerei ad ascoltare i clienti comodamente seduti. L’attore famoso. Il tizio che vuole conquistare la tipa: “Ti porterei letto”».
Viene voglia di continuare l’elenco di Talese: il sommelier che guarda bere un riccone e pensa “Questo lo spenno”, il clochard sul retro delle cucine che fruga nella spazzatura, la ragazza anoressica che gira e rigira il cibo nel piatto, il trombone gourmet che elenca le sue ultime mangiate, l’arrampicatore sociale che spende soldi che non ha nel tentativo di farsi vedere da chi conta, il politico di provincia approdato nella capitale con la scorta di tutta la fame atavica delle genti che dovrebbe rappresentare…
La verità è che i ristoranti sono il bengodi dei narratori, perché la loro materia è eterna e continuamente rinnovata, al di là di quello che succede dentro e fuori dai loro frigoriferi.