Nella stagione del sonno della politica, l’Italia si scopre guidata da un governo tecnico che sembra, al momento, apprezzare. Con la crisi economica sembra che ogni fiducia nei partiti, che appaiono inadeguati se non colpevoli, sia stata spazzata via. Una crisi senza ritorno? Può darsi, o forse no. Di sicuro è un periodo in cui i cambiamenti ribollono, e sarà importante capire dove andranno. Linkiesta ne ha parlato con Marco Tarchi, politologo, ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze e ideologo della Nuova Destra, esperienza che finirà nel 1994.
Un’opinione politica: cosa pensa dell’operato del governo Monti? Sono in molti a definire la sua guida, più che tecnica, politica. Che significa?
Come è stato da più parti notato, nessun governo può prescindere da caratteristiche politiche, perché il suo operato deve riscuotere il consenso di un’istituzione politica fondamentale come il parlamento. Però il governo Monti è stato promosso da Napolitano, ed è riuscito ad ottenere la fiducia di una composita maggioranza parlamentare, perché viene percepito come “non politico”, e per lo stesso motivo – anzi, in questo caso perché gli si attribuisce connotati nettamente alternativi a quelli della politica professionale, e in un certo senso quindi “antipolitici” – ha finora ottenuto un gradimento elevato presso l’opinione pubblica. Gradimento che, però, è certamente destinato a scendere via via che l’esecutivo dovrà affrontare (e sciogliere) nodi che coinvolgono interessi configgenti, come già si vede nel caso della riforma del mercato del lavoro. Perché, usando i termini del tutto convenzionalmente, le soluzioni prospettate appaiono “di destra” e inevitabilmente dispiacciono “a sinistra”. In questo caso, il fatto di raccogliere personalità di provenienza non partitica non è sufficiente a proteggersi da dissensi e contestazioni. Anzi: in molti sedicenti tecnici, chi dissente scorge il profilo inquietante di interessi economici e/o finanziari tutt’altro che coincidenti con il presunto interesse generale o nazionale. Resta il fatto che io sono fra coloro che giudicano il varo del gabinetto presieduto da Monti il segno di una sconfitta della politica, che ormai da decenni è profondamente condizionata dall’economia ma sinora era riuscita a “salvare la faccia” della propria ipotetica indipendenza, o quantomeno autonomia, dai poteri che contano, e adesso mostra la sua sostanziale impotenza di fronte ad essi.
Forse proprio da queste discussioni emerge la difficoltà di distinguere la destra e la sinistra, e si ha l’impressione che le categorie siano superate. O è solo la difficoltà dei partiti a declinarle secondo i tempi nuovi?
Lungi dal considerarle estinte, io da decenni considero destra e sinistra categorie utili soltanto se usate in termini convenzionali e relativi. Non vi scorgo, diversamente da Bobbio ed altri, alcuna essenza permanente di fondo. Credo poi che, anche quando le si utilizza come “segnalatori di posizione” su questa o quella questione – per dirla con Giovanni Sartori – ci si debba guardare dall’immaginare, con un eccessivo cedimento ai tipi ideali, che la maggioranza delle persone assuma coerentemente e costantemente atteggiamenti di destra, di sinistra o di centro in ogni campo. È vero il contrario: spesso si può essere più “a destra” di altri su un determinato tema – tanto per fare qualche esempio: su temi bioetici, di ordine pubblico, di politica internazionale, economici, di organizzazione della società… – e più “a sinistra” di quelle stesse persone su altri. Quando ci si attacca feticisticamente a queste etichette, è perché si ha timore di esercitare liberamente il proprio senso critico. Non stupisce, peraltro, che molte volte siano i partiti a sbandierarle. Dato che i residui di sistemi forti e coesi di credenze – le vituperate ideologie di un tempo – sono, nei programmi e nelle scelte pratiche dei partiti, sempre più sbiaditi, per ottenere un surplus di consensi dagli elettori è tuttora utile puntare su un elemento emotivo: il senso di appartenenza, di identificazione, ereditato da tradizioni familiari o dall’influenza del contesto locale. Non so quanto a lungo durerà questa situazione, ma la ritengo destinata a logorarsi sempre più, perché le grandi fratture socioculturali odierne – citiamone un paio (ma ce ne sono molte): quelle relative alle tematiche ambientali e ai dilemmi culturali e organizzativi proposti dalle società multietniche – non rispecchiano più il vecchio spartiacque sinistra/destra.
Non solo destra e sinistra, però. Anche i partiti non stanno bene. È la fine di un’epoca? Cosa dovrebbero fare in questa “pausa” i partiti per ritrovare voti e creare nuove idee?
Non siamo di fronte alla fine di un’epoca, ma a una seria crisi congiunturale. Non credo a quanti, ancora una volta, profetizzano il tramonto dei partiti, perché le democrazie rappresentative sono state strutturate in modo tale da farne il perno del rapporto fra sfere decisionali e cittadinanza, e non si è mai riusciti a sostituirli con altri soggetti. Movimenti e comitati possono catalizzare, caso per caso, umori ed attenzioni del pubblico, ma sono, per loro natura, instabili ed effimeri. I gruppi d’interesse trovano molto più conveniente agire per tramite di altri soggetti che assumendosi in prima persona il difficile compito di procacciarsi consensi. La democrazia continua e diretta, per via elettronica o referendaria, è, allo stato attuale delle cose, un’utopia. Gli esperimenti di “democrazia procedurale” sono suggestivi e possono facilitare la risoluzione di contrasti su talune politiche pubbliche, ma non penso possano andare oltre questo ambito. Quindi i partiti resteranno. Cosa potrebbero fare per rilanciarsi? Procedere ad un rinnovamento radicale del proprio modo di interpretare le funzioni che le leggi e le consuetudini assegnano loro. Il primo passo dovrebbe essere il concepire l’azione politica, per dirla con Max Weber, come una vocazione piuttosto che – come oggi è – come una (lucrosa) professione. Ma la vedo difficile, per cui ritengo che ancora a lungo la crisi dei partiti proseguirà.
Intanto, con Monti sono sparite anche le promesse di Berlusconi. Penso al federalismo, alla sperequazione tra nord e sud: tutto è stato cancellato dall’emergenza economica e della necessità della crescita. Più che il passaggio a uno stile più sobrio, ci sono linee di discontinuità più forti. O no?
Il clima di emergenza ha sempre l’effetto di rimescolare le carte in seno all’opinione pubblica, dettando un cambiamento netto di agenda. La caduta di Berlusconi – e in primo luogo lo scompaginamento del suo eterogeneo agglomerato politico-elettorale di sostegno, il Pdl – è stata determinata dall’improvvisa drammatizzazione della “sfiducia dei mercati” e della questione del debito pubblico – grave, ma invano denunciata per decenni da sparuti osservatori, solitamente fatti passare per Cassandre. In nome e per conto di questa urgenza si è affermata quella sorta di “stato di eccezione” che ha portato al governo Monti. Il resto non poteva che passare in secondo piano. Ma i quesiti irrisolti rimangono, e prima o poi sono destinati a ritornare a galla, a far riemergere consolidate divisione e a suscitarne di nuove.
Per molti, dopo Monti non ci sarà altra scelta se non un “terzo polo” moderato, fatto dai montiani di Pd e Pdl, insieme a Udc, Fli e altre forze centriste. Servirebbe a completare le riforme di questo governo ed evitare il collasso dell’economia. Funzionerebbe?
Non lo credo, ma non escludo che questo possa essere, nel breve periodo, lo sbocco di questa fase di “commissariamento” della politica. Ciò accadrà soprattutto se i sondaggi continueranno a lasciare gli attuali partiti, e le coalizioni che potrebbero formare, incerti sui risultati elettorali e sulla possibilità di formare governi sorretti da maggioranze almeno teoricamente solide. Credo però che, se si accedesse a questa sorta di “grande coalizione” di emergenza, la diffidenza degli elettori crescerebbe ancora e si aprirebbero spazi piuttosto vasti a forze di opposizioni nettamente connotate – non penso solo a Lega, Sel o Italia dei Valori, ma anche al movimento Cinque stelle di Grillo. Molti degli sviluppi futuri dipenderanno però anche dal sistema elettorale con cui verrà eletto il prossimo parlamento.
Esistono alternative a questo modello? Se sì, quali potrebbero essere, allo stato attuale delle cose?
Certo che esistono. Occorrerebbe però ricostituire partiti e/o coalizioni che abbiano culture politiche, programmi e prassi coesi e coerenti. Il che comporterebbe lo scioglimento e la rifusione di aggregati e sigle oggi esistenti, per l’ennesima volta dopo gli anni Ottanta. Non mi pare che ci troviamo di fronte a una simile possibilità. Un “tirare a campare”, per adesso, mi pare l’ipotesi più probabile.
E come si potrebbe costruire una politica più forte nel contesto globale e internazionale di oggi, in cui sembra che l’economia detti le leggi alla politica?
La questione è di amplissima portata. Per rispondere esaurientemente, bisognerebbe chiamare in causa gli elementi fondamentali dello “spirito del tempo” che è venuto formandosi nel secolo scorso, a seguito soprattutto delle due svolte epocali del 1945 e del 1989. Viviamo in un contesto, prima di tutto psicologico, che è ben descritto dalla teoria di Fukuyama sulla “fine della storia”, spesso mal interpretata. Si pensa che, per evitare ulteriori gravi conflitti mondiali, il mondo debba essere retto da un’unica regia e sulla base di un unico spartito, che è quello dettato dalla logica del capitalismo. In questo contesto, la subordinazione della politica all’economia è considerata, implicitamente o esplicitamente, un elemento di rassicurazione dal rischio di eccessivi conflitti. Agitando spauracchi e spettri – il nazionalismo, la xenofobia, l’autoritarismo… – e allineandosi dietro la bandiera dei diritti dell’uomo (che consente il sistematico ricorso alle maniere forti contro i riottosi, di volta in volta denunciati come flagelli dell’umanità) si cerca di mantenere indefinitamente uno status quo in cui la politica non può che essere ostaggio delle volontà dei poteri economici.
Chi intravede, tra i personaggi politici attuali, che può essere in grado di creare nuove forme politiche? Per molti, questo è il periodo di Casini e del cattolicesimo moderato. Lei è d’accordo?
Non esagererei. Che Casini possa creare “nuove forme politiche” mi sembra un’aspettativa spropositata. Già fatica a creare un Terzo polo che sia davvero tale, e se non avesse potuto profittare dell’occasione offertagli dal governo Monti, le tre o quattro componenti interne al suo progetto forse starebbero già andando in ordine sparso. Casini può avvalersi delle contingenze per espandere il suo ruolo e la consistenza elettorale dell’Udc, qualora il Pdl accentui l’attuale crisi; il che potrebbe anche promuoverlo a successore “politico” di Monti, ma la prospettiva è tutt’altro che certa. Di creatori di nuove forme politiche di governo, non ne vedo in giro. Forse qualcosa di più dinamico può apparire sul versante dell’opposizione: il già citato Movimento Cinque stelle ne è un esempio. Ma anche lì iniziano ad apparire sintomi disgregativi.
Che direzioni potrebbero avere i partiti della destra berlusconiana? Quali sono i temi portanti che possono ridisegnare un’identità nuova dopo l’uscita di scena di Berlusconi?
In tutta Europa, le destre che avanzano sono quelle che la vulgata comune definisce populiste. Ad alimentarle sono i timori e i problemi suscitati dalla difficoltà di far fronte alle conseguenze della globalizzazione, prima di tutto la trasformazione delle società in senso multietnico a causa dei forti flussi migratori, con gli interrogativi sull’opportunità o meno di adottare criteri multiculturali per assicurarne la governabilità. Dubito che gli eredi del Pdl si inoltreranno su questa strada. Resta loro aperta l’altra via: un conservatorismo moderato, sobrio nei modi e incerto nei contorni ideologici e programmatici – alla Sarkozy, alla Cameron, alla Merkel. Non so quanto sia atto ad incontrare il consenso diffuso degli italiani. Attendiamo e vedremo.
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