Il parlamento contro l’allevamento di cavie in Italia. E la scienza protesta

Il parlamento contro l’allevamento di cavie in Italia. E la scienza protesta

Con la vicenda legata alle scimmie della Harlan di Correzzana (Monza-Brianza) e con la protesta sempre più visibile del gruppo “Fermare Green Hill”, che prende di mira un allevamento di cani nei pressi di Montichiari, l’unico in italia a fornirli ai gruppi di ricerca, la protesta dei movimenti e delle associazioni animaliste contro la ricerca scientifica condotta sugli animali sta continuando a far parlare di sé. E la protesta in questi giorni ha toccato anche l’ospedale San Raffaele di Milano.

Nel frattempo le due camere del Parlamento italiano stanno discutendo l’accoglimento nella legge italiana della Direttiva Europea sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici. Se ne è discusso anche in un incontro organizzato dall’Istituto Mario Negri di Milano con il quale il direttore Silvio Garattini ha voluto esprimere la propria posizione assieme a un gruppo di scienziati impegnati nella ricerca medica in diverse centri italiani. «Fermo restando che allo stato attuale delle cose il passaggio alla sperimentazione animale per farmaci e terapie non può essere saltato», ha dichiarato Garattini, «la nostra posizione, e la posizione di chiunque faccia ricerca in modo responsabile, è che la Direttiva Europea sia giusta, mentre ci siano evidenti contraddizioni negli emendamenti che sono stati apportati in Italia dalle commissioni parlamentari» in un testo approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati e passato all’esame del Senato. La Direttiva Europea deve essere approvata nell’ambito delle leggi comunitarie, ma secondo Garattini «non tocca direttamente l’Italia, che ha già una normativa molto avanzata in questa materia». Lo scopo della Direttiva Europea sarebbe semplicemente quello di armonizzare il comportamento dei Paesi membri in materia.

Il testo emendato e più restrittivo non piace neanche a Massenzio Fornasier, presidente della Società Italiana Veterinari Animali da Laboratorio (Sival). Secondo Fornasier, i tentativi di rendere più restrittivo l’uso degli animali in laboratorio rischia di essere un boomerang per la loro stessa tutela. I punti più importanti sono tre: il divieto di allevare in Italia cani, gatti e scimmie per scopo di ricerca, il divieto di effettuare qualsiasi procedura sperimentale senza l’utilizzo dell’anestesia e l’impossibilità di utilizzare gli animali per la formazione del personale delle strutture di ricerca. «Sono norme che contraddicono lo spirito stesso della Direttiva Europea», ha commentato Fornasier. «Se non si possono allevare animali in Italia, verranno comperati all’estero dove sarà più difficile per i veterinari effettuare controlli».

Per quanto riguarda l’anestesia, la Direttiva già prevede che sia utilizzata a meno che non sia più dannosa della procedura sperimentale stessa: allargare a tutte le procedure questo obbligo significa che «dovremo fare l’anestesia anche solo per i prelievi di sangue». L’impossibilità di fare formazione sugli animali, inoltre, «non fa che peggiorare la condizione degli animali che verranno toccati e manipolati da personale non formato», ha preseguito Fornasier, «con un rischio sicuramente maggiore di indurre sofferenza».

Secondo gli animalisti, tutti questi problemi evaporerebbero se non si facesse mai uso di animali per la ricerca scientifica e si facesse ricorso a soluzioni alternative come la sperimentazione sulle colture cellulari o con le simulazioni al computer che oramai, sostengono, hanno raggiunto gradi di sofisticazione tali da pareggiare la sperimentazione in vivo sugli animali. «Questo non è vero», ha replicato il direttore scientifico della Fondazione Istituto Nazionale Tumori Marco Pierotti, «e quando si parla di animali in laboratori ci si scontra sempre con i pregiudizi. Se, per fare un esempio, prendiamo in esame le interazioni tra la prima cellula di un tumore che si sta formando e il micro-ambiente che la circonda. Sono studi fondamentali per cercare di capire come bloccare la proliferazione della patologia nel corpo del paziente e non possiamo farli al computer o con una colonia di cellule: la complessità dei tessuti e degli organi del corpo di un animale o dell’uomo è molto maggiore». Saltare questo passaggio significherebbe, secondo Pierotti, aumentare i rischi quando si passa all’uomo, mettendo ancor di più a rischio pazienti che «hanno già i loro problemi a stare in salute» senza venire esposti a farmaci poco sicuri o, peggio, tossici.

Di sicuro la tecnologia ha permesso di diminuire enormemente il numero di animali impiegati laboratorio. Oggi molte delle informazioni che si potevano ricavare post mortem «si possono raccogliere senza il sacrificio degli animali», ha precisato Fernando Cornelio, Direttore Scientifico della Fondazione Istituto Neurologico “Carlo Besta”. «La risonanza magnetica funzionale, per esempio, ci consente di sapere cosa sta avvenendo all’interno del cervello di un topo o di un ratto mentre è in vita e la nanomedicina promette di rendere queste tecniche di imaging ancora più efficaci salvaguardando il benessere della cavia». Lo sviluppo tecnologico ha permesso di passare «dai centomila topi all’anno usati negli anni Ottanta al Mario Negri ai 12 mila di oggi», ha raccontato Silvio Garattini, senza che la ricerca ne abbia risentito. Un trend di decrescita che è confermato dai numeri ufficiali (tutti gli animali usati per la ricerca sono registrati e i dati sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale). «L’ultima rilevazione ufficiale del triennio 2007 – 2009», ha illustrato Fornasier, «parla di un 20% in meno rispetto al triennio precedente».  

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