Non potevano non esserci polemiche, all’uscita di Romanzo di una strage, l’ultimo film di Marco Tullio Giordana che ricostruisce la storia dell’attentato di Piazza Fontana, avvenuto il 12 dicembre 1969. Il tema, si intuisce, è complesso. Le lunghe conseguenze di quella notte, anche a distanza di 43 anni, sanno fare ancora male: ravvivano le discussioni e le interpretazioni sui fatti dell’epoca, e si confrontano con le scelte fatte dal regista del film. Come sostiene Mario Calabresi, figlio di Luigi Calabresi, il film non mette in luce la campagna di diffamazione, pressione e minacce che aveva colpito il commissario dopo la morte di Pinelli. È vero. Il tema è solo accennato. I leader di Lotta Continua non compaiono mai, nemmeno nella sequenza del processo per diffamazione. Addirittura, il film sembra alludere che i responsabili dell’omicidio di Calabresi possano essere i servizi segreti deviati.
Ma, a parte questo, a Giordana va riconosciuto di esserne uscito bene. L’impresa non era da poco, e forse non è il caso di passare in rassegna tutte le discrepanze (a parte, come già detto, quelle principali) e le sbavature più o meno volontarie. Il film è lucido, tiene unite le storie dei personaggi raccontando con chiarezza un mondo lontano. Soprattutto, c’è (e si vede molto) la volontà di rendere tutta l’ambiguità di quel momento, che travolge ogni cosa. Si vedono gruppi anarchici con infiltrati di destra, agenti segreti infiltrati nei fascisti ma che, forse, erano più pericolosi dei terroristi stessi. E poi gli episodi oscuri, come la morte di Feltrinelli o il volo di Pinelli dalla finestra della questura. Oppure le connivenze della questura, il tradimento dei funzionari statali, gli insabbiamenti e le piste sbagliate. Non mancano i drammi di Aldo Moro, il referente istituzionale che tiene il filo di tutta la vicenda, e gli scontri nel governo. Ma soprattutto, con piazza Fontana nasce il dubbio in tutti gli italiani, e nulla sarà come prima. Sullo Stato, sulla giustizia. Lo si dice per bocca della vedova Pinelli, poi del giudice Paolillo. E nel tormento del commissario Calabresi, che arriva a intuire una verità, o la verità.
Giordana è attento: racconta gli inganni, ma non vi si perde dentro. Si mantiene legato alla realtà storica: spiega la paranoia, ma svela la verità. Insomma, dice chi è stato. Racconta come si arriva a Ventura e Freda. Scagiona Valpreda e Pinelli. Lo fa capire allo stesso Calabresi, prima che venga ucciso (da qui la velata allusione al coinvolgimento di servizi segreti, di cui sopra). E in tutto questo, mostra i protagonisti nella loro umanità, riduce la forza del simbolo che sia il commissario Calabresi che Pinelli erano diventati nel tempo. E, anche se la rappresentazione non ha convinto i familiari (soprattutto Gemma Capra, moglie del commissario, che non vi ha riconosciuto il marito), il tentativo di restituirli a una realtà umana è senz’altro lodevole, anche perché, facendo questo, non perde il suo potere evocativo.
Sì, perché il film sa essere anche intenso. Non solo per la bravura degli attori (tra cui andrebbe segnalato Fabrizio Gifuni, che interpreta il pensoso Aldo Moro), ma per la sapienza di alcune scene, come il dolore della madre di Pinelli di fronte al fuggi fuggi dei medici, che non sanno dirle la verità. O, ancora, nell’orgoglio della moglie Licia, che non vuole piangere al funerale del marito, per non darla vinta «a loro». Insomma, Giordana raccoglie e sbozza anche questo, nel groviglio di storie che si muovono sullo sfondo di una piazza del Duomo piena di persone. Quando, ai funerali delle vittime di Piazza Fontana, pioveva. E tanta era la paura, e lo stupore, che nessuno parlava.