È la prima donna in Italia ad essersi laureata in ingegneria nucleare al Politecnico di Milano. Giovanna Gabetta, classe ‘52, trova difficile evitare le trappole degli stereotipi. Non ama molto, ad esempio, l’abitudine di chiedere alle donne la ragione per cui hanno deciso di fare ingegneria. Secondo lei la domanda contiene un messaggio del tipo: cosa ci fai qui? E così l’intervista inizia con una sua richiesta. «Non sarebbe più interessante sapere con che obiettivo una persona sceglie questi studi?».
Quali erano i suoi obiettivi?
Volevo lavorare nella ricerca e ingegneria mi sembrava un settore ampio, che mi avrebbe permesso maggiori possibilità.
E la scelta del “nucleare”?
All’inizio mi sono iscritta a ingegneria chimica, poi ho conosciuto il gruppo degli studenti di nucleare e ho deciso di cambiare. Ingegneria nucleare mi sembra ancora adesso un campo di studio affascinante, e un settore della ricerca che non avremmo mai dovuto abbandonare.
Perché?
Perché non penso si debba aver paura della scienza.
Partiamo dall’università. Si è accorta fin da subito di essere una “eccezione”?
Forse sarebbe meglio dire una minoranza. Si certo, non si poteva fare a meno di notarlo: nell’aula dove facevamo lezione al primo anno, che conteneva più o meno 400 persone, eravamo in 4 o 5 ragazze. Negli anni seguenti, quando i gruppi a lezione erano più piccoli, la maggior parte delle volte ero da sola.
A quanti anni si è laureata?
Avevo 23 anni. Ero abbastanza brava e soprattutto veloce: sono stata la prima a laurearmi, e l’unica che ha finito a luglio del 5° anno. Però non avevo una media altissima, almeno in confronto con molti miei colleghi ingegneri nucleari che prendevano tutti e solo trenta. La mia media alla fine è stata del 27, e il voto di laurea 96/100.
Essere l’unica studentessa le ha comportato problemi?
In generale gli insegnanti mi trattavano fin troppo bene, il che potrebbe anche essere visto come una forma subdola di discriminazione, ma mi sembra una interpretazione forzata. Un paio di volte ho dovuto subire qualche battuta non troppo gentile, ma in genere mi sono sempre sentita a mio agio. Poi ho partecipato ad un concorso universitario in cui le mie sessanta pubblicazioni sono state respinte come “non pertinenti” perché il posto era già stato assegnato. Ma evidentemente non si trattava di discriminare una donna, ma solo di far andare avanti qualcuno.
Giovanna Gabetta
Una volta messo piede nel mondo del lavoro le cose sono andate migliorando?
No, direi il contrario. Il mondo del lavoro si è rivelato da subito un po’ traumatico. Prima di tutto perché mi sono sposata appena laureata e non sono più riuscita a trovare lavoro per circa tre anni. Nessuno voleva una donna sposata, o forse neppure una donna. Tra l’altro da Milano ci eravamo trasferiti a Genova, dove c’erano le principali aziende di ingegneria nucleare.
Dove ha trovato il suo primo lavoro?
A Milano, grazie all’aiuto di un professore del Politecnico. Mio marito si è dovuto trasferire, ha cambiato lavoro e la mia attività di ricercatrice è iniziata – o meglio è ripresa – con uno stage di sei mesi negli Stati Uniti. Il mondo del lavoro mi è sempre piaciuto: non a caso sono una delle poche persone nate nel 1952 e felici di questo aumento dell’età pensionabile.
Come è cambiato il mondo del lavoro rispetto ai suoi anni?
Ho visto due tipi di evoluzione: da una parte, il numero di laureati o più in generale di persone che potevano aspirare a posti di responsabilità è aumentato enormemente (oggi nell’azienda dove lavoro si assumono solo laureati, e tutti selezionati con il massimo dei voti); dall’altro vedo il numero delle donne, e di quelle che diventano dirigenti, che sta cominciando a crescere.
Quindi stiamo andando verso un miglioramento?
Le regole delle aziende sono maschili, nel senso che vedono il femminile come qualcosa di serie B. Le donne possono scegliere di adattarsi, e comunque questo non è detto che le aiuti a fare carriera, oppure possono decidere di restare al margine, privilegiando altri aspetti della vita. Mi accorgo, comunque, di essere diventata un po’ impaziente, forse perché sto invecchiando, ma in genere mi sembra che le donne preferiscano adattarsi, piuttosto che lottare per un riconoscimento del loro contributo. A volte penso che la crisi ci farà un po’ rinsavire, ma potrebbe anche avere l’effetto opposto.
Chi ci perde?
Ci perdono le aziende, che non sanno utilizzare al meglio le loro persone. Per esempio, si potrebbe pensare di sostituire la competizione con la collaborazione. Il contributo femminile in questa direzione potrebbe diventare significativo e fare la differenza.
E la nostra legislazione aiuta?
In Italia abbiamo delle ottime leggi, ma non abbiamo l’abitudine alla trasparenza e non sappiamo affrontare questi argomenti, se non dicendo bugie e negando anche l’evidenza. E poi in molti casi anche le aziende stesse, per non parlare dei sindacati e dei giudici del lavoro, sono sensibili ai problemi di chi subisce molestie, ma non considerano altrettanto importante la rivendicazione del merito. In Italia si fa carriera perché si è appoggiati dal superiore diretto, e questo vale sia per gli uomini che per le donne.
Ritorniamo all’ingegneria: nel 2008 le studentesse laureate in questa area sono state solo il 23%. Perché secondo lei?
Ci sono tanti fattori, e tra l’altro questo 23 % dipende dal gran numero di ingegneri gestionali. Provi a vedere quante donne fanno ingegneria meccanica o idraulica. Bisognerebbe sottoporre il fenomeno a sociologi e psicologi. Ma inizio anche a pensare che adattarsi al proprio genere, cioè al comportamento che la società si aspetta dal nostro sesso, renda spesso la vita più facile. Il ruolo dell’ingegnere in Italia la dice lunga sulle nostre laureate. Nell’Urss, per esempio, le donne ingegnere erano molte di più, perché le attività di tipo tecnico sono sempre state più congegnali a loro. Forse lo sono meno quella da dirigente d’azienda, che peraltro è un ruolo tipicamente italiano.
Abbiamo da imparare quindi dagli altri Stati? Ad esempio, in Norvegia la situazione femminile è decisamente più rosea rispetto all’Italia.
Molti stati europei aiutano le donne a lavorare e le trattano meglio. Tutti i processi di cambiamento, poi, richiedono tempo e avvengono per tentativi, un passo avanti e un passo indietro. Alla base del mio libro L’alternativa negata. Le donne, la scienza, il potere, ci sono i dati ottenuti da un questionario che ho sottoposto alle mie colleghe. I risultati, anche se il mio campione non è statisticamente significativo, la dicono lunga sui processi di cambiamento che stanno avvenendo. Per esempio, solo 6 lavoratrici sulle 127, che hanno partecipato alla ricerca, hanno riferito di avere un capo donna. Una su 6 è italiana. Solo 4 donne su 127 hanno 100 o più dipendenti. La più anziana, è italiana.
Chiudiamo con il tasto dolente della retribuzione…
Le disparità ci sono sia sulla carriera, che sulla retribuzione. Le due cose sono legate tra loro, e non mi meravigliano. Una delle ragioni è culturale. Da noi il pensiero condiviso è quello secondo il quale gli uomini lavorano per portare a casa i soldi, le donne invece per dare un contributo, oppure semplicemente per “realizzarsi”. Perciò non possono pretendere di guadagnare come gli uomini. Questa idea è abbastanza diffusa e particolarmente in Italia. Se la retribuzione e la carriera fossero commisurate ai risultati, le disparità di genere non si vedrebbero.