(Riceviamo questa lettera di Franco Donnini, iscritto al Pd di Alghero)
Non è più tempo di tentennamenti, strategie egoistiche e tattiche di piccolo cabotaggio: il rischio di rivivere come europei un periodo di grandi difficoltà e sofferenze è tutt’altro che scongiurato. Come scrivono da tempo autorevoli analisti politico-economici, nazionali e internazionali, un crollo dell’eurozona aprirebbe scenari molto poco rassicuranti; scenari che credevamo di avere definitivamente consegnato alla storia.
Questo è il tempo del coraggio del cambiamento. Questo è il tempo di costruire nuove, concrete utopie: una di queste, senza ombra di dubbio, è quella che vede la politica, quella nobile, lungimirante e condivisa riprendersi il ruolo che le spetta nelle società evolute, ossia immaginare il futuro e impegnarsi a plasmarlo attraverso l’azione e il lavoro nel presente.
Noi siamo i demiurghi del nostro futuro e non possiamo permettere che siano altri – le corporation multinazionali – a costruirlo al nostro posto. Allora proviamo a immaginarlo questo futuro, senza timore dell’ignoto. Proprio in questo delicato momento storico, dall’Italia, fino a ieri vista dai partners comunitari come capro espiatorio della crisi europea, dovrebbe partire la sfida per riportare la politica in Europa. E la sfida di cui parlo consiste nella creazione di un’entità politica transnazionale che sappia contrapporsi democraticamente al potere economico-finanziario globalista e alle sue sempre più spregiudicate scorribande.
Il potere nel mondo è esercitato prevalentemente da un ristretto gruppo di multinazionali, come ha messo in luce l’Istituto Federale Svizzero di Tecnologia con una ricerca intitolata La rete globale del controllo societario. «Lo studio, pubblicato da New Scientist» (e riportato sul quotidiano La Repubblica da Livia Ermini), «prende in esame le connessioni fra 43.060 multinazionali evidenziando un piccolo gruppo di 1.318 società transnazionali (la cui punta di diamante è costituita da 147 corporation) che esercita un potere enorme, “sproporzionato” lo definiscono i relatori, sull’economia globale. Goldman Sachs, Barclays Bank e JPMorgan sono solo alcuni dei nomi delle corporation, quasi tutte finanziarie, che figurano ai primi 20 posti della ‘cosiddetta’ mappa del tesoro.» Tra le cinquanta società figurano anche due grossi gruppi italiani: Unicredit Banca e Benetton Spa. Badate bene: non si tratta delle solite tesi complottistiche.
Il lavoro svolto dai ricercatori Stefania Vitali, Stefano Battiston e James B. Glattfelder è il frutto di un’analisi che non concede nulla alla speculazione e agli schemi ideologici, ma si basa esclusivamente su dati statistici. «Lo studio, infatti, intreccia modelli matematici con un database delle aziende mondiali (Orbis 2007) ricostruendo reti di relazioni e partecipazione che costituiscono nodi di potere sui mercati globali, senza essere frutto di accordi sottobanco». Siamo arrivati al punto in cui anche per la gran parte dei cittadini degli Stati occidentali non è più un tabù il pensiero per il quale la politica, i governi e i partiti subiscono le decisioni assunte da soggetti che lavorano nell’ombra, ponendosi completamente al di fuori del perimetro entro il quale si svolge la democrazia. Tutto ciò avviene non per l’esistenza di un’organizzazione criminale sul modello della Spectre, ma per la semplice ragione che anche i meccanismi più sofisticati vanno incontro, con il trascorrere del tempo, a naturali fenomeni di aberrazione. Aberrazione che in questo caso la politica a causa di un suo rilevante deficit decisionale e di un torbido rapporto simbiotico con la finanza, non è in grado di correggere.
I Mercati, di cui sentiamo frequentemente parlare e leggiamo sugli organi si stampa, da quali soggetti sono prevalentemente “influenzati”? Alessandro Politi e Claudia Bettiol, sul numero 6/2011di Limes, ci forniscono informazioni utili per meglio comprendere i rapporti di forza al loro interno e diradare la fitta cortina fumogena dietro la quale transitano montagne di miliardi di dollari. I due studiosi sostengono che la parola “mercato” non ha più senso, poiché «dopo 30 anni di fusioni e acquisizioni, l’OCSE ha potuto osservare che ci sono 10 attori che controllano oltre il 90% del mercato dei derivati». Per non parlare del potere di vita o di morte esercitato dalle agenzie di rating sugli Stati. Questi attori rispondono al nome di: «Morgan Stanley, Bank of America, Citibank, Goldman Sachs, Barclays, Deutsche Bank, UBS, Credit Suisse, Societé Gènerale, BNP-Paribas».
Non è difficile, neppure per una persona poco ferrata in materia, capire che ci troviamo di fronte ad un abnorme oligopolio finanziario, cosa differente dal concetto di libero mercato di cui si continua a favoleggiare. La questione è che ci troviamo nello stato di difficoltà in cui siamo poiché il potere politico ha abdicato al suo ruolo di organismo preposto a svolgere la funzione di regolatore del sistema economico; rinunciando così al perseguimento della giustizia sociale, dell’equità e del benessere generale.
Tuttavia, con la crisi non arrivano solo drammi. E’ vero che essa impone cambiamenti bruschi e in molti casi dolorosi, ma offre anche grandi opportunità e queste oggi la politica ha la possibilità di coglierle. Ma ai suoi esponenti è richiesto coraggio e visione sociale.
Per questa serie di ragioni sostengo che proprio adesso necessita, è urgente la creazione di un partito politico transnazionale. Non un soggetto come quello nato nel 1989 a seguito della trasformazione dell’allora movimento Radicale antiproibizionista in Partito Radicale Nonviolento Transnazionale, no. Occorre un partito ampio, credibile, totalmente aperto alla partecipazione. Un partito con rappresentanti democraticamente eletti nei propri organismi direttivi, nelle istituzioni nazionali e sovranazionali. Peculiarmente attento all’ascolto della pancia delle società europee; non per farsi guidare da esse ma per incanalare la frustrazione, il malcontento, la rabbia e trasformarle in proposta politica nuova. Un partito i cui membri abbiano la assoluta consapevolezza di doversi impegnare strenuamente per difendere i cittadini europei, che dalla crisi in atto subiranno inevitabilmente dei durissimi contraccolpi economico-sociali. Inoltre, si dovrà sforzare per ottenere una visione che sia la più precisa possibile di ciò che attende il Continente nei prossimi anni e dovrà possedere la capacità di leggere gli eventi del presente proiettandone gli sviluppi nel futuro, per trovare soluzioni politiche all’altezza dei grandi cambiamenti che stiamo attraversando e verso cui procediamo.
Perché non far partire una simile sfida proprio dall’Italia con il contributo di cittadini comuni, movimenti, militanti e tutte le forze sane e volenterose del Paese con in testa un Pd rinnovato? La funzione di quello che dal mio punto di vista dovrebbe essere il Partito dei Democratici Europei, consiste nel provare a dare forza e organizzazione al cambiamento politico che milioni di cittadini in tutto il mondo, ormai, chiedono a gran voce, alla politica come all’economia. Ritengo debba essere il Partito Democratico Italiano, per il valore politico-simbolico che ha rappresentato la sua nascita e per l’importanza che ha avuto l’Italia nel processo di unificazione europea, a portare quest’idea in un ambito sovranazionale. I movimenti come Occupy Wall Street e gli Indignados – solo per citare i due più noti al grande pubblico – sono l’avanguardia politico-culturale di una corrente di cambiamento alimentata da centinaia di migliaia di cittadini in tutto il pianeta. Persone che non sono più disposte a tollerare che le cose procedano per il verso in cui sono andate negli ultimi cinquant’anni. Anche se, per la verità, la brusca accelerazione ultra-liberista c’è stata a partire dal 1981: l’anno delle deregulations di Ronald Reagan e Margaret Thatcher e nel 1989 con la definitiva archiviazione di un mondo incardinato sulla contrapposizione di due blocchi: Usa – Urss.
Per provare a costruire il nuovo si dovrebbe partire da una interlocuzione in ambito europeo con le forze di matrice socialdemocratica, progressista e cristiano democratica, oltreché con i grandi movimenti di opinione affacciatisi recentemente sulla scena mondiale. Gli obiettivi della nuova forza politica dovrebbero consistere prioritariamente nel concordare azioni coordinate e sinergiche tra i vari Paesi dell’eurozona – ma non solo con essi – in funzione di una più efficace risposta agli attacchi speculativi degli oligopoli finanziari transnazionali, quindi mediante la ripresa di controllo e regolamentazione della politica sull’economia, di politiche da espletare nei confronti delle istituzioni europee affinché queste esercitino un più ferma volontà di sovranità decisionale in casa propria.
Concludo questa riflessione con una citazione del sociologo Ulrich Beck: «La globalizzazione ha reso possibile ciò che per il capitalismo forse è sempre stato valido in modo latente, ma che è rimasto finora ingabbiato in uno schema socio-statale democratico: il fatto che, cioè, le imprese, in particolare quelle che agiscono globalmente, detengono un ruolo chiave non solo nell’organizzazione dell’economia, ma anche in quella della società nel suo complesso; sia pure ‘solo’ in ragione del fatto che possono sottrarre alla società le risorse materiali (capitale, tasse, posti di lavoro)». Insomma, per fronteggiare alla pari il potere delle corporation globali, che agiscono slegate dai vincoli degli Stati nazionali, occorre costituire un contropotere politico parimenti transnazionale, in grado di ricreare su un piano sovranazionale il “vecchio” schema socio-statale democratico di cui parla U.Beck.