A Bivona, in provincia di Agrigento, c’è la nebbia. Una nebbia che «offusca le menti delle persone». L’imprenditore edile Ignazio Cutrò vive lì e ha scelto di restare nella sua terra e di essere uno dei pochi testimoni di giustizia a non accettare il trasferimento in una località protetta. «Vivo al Sud, in Sicilia, – dice a Linkiesta – e la nebbia che c’è qui è diversa da quella di Milano. Questa non scompare mai». A 30 chilometri da Corleone, Cutrò ha contribuito al processo “Face Off”, facendo condannare alcuni mafiosi della Bassa Quisquina, che gli avevano distrutto l’azienda, ma non la sua dignità di uomo. A fare questo, invece, ci sta pensando il grande vuoto normativo che gira intorno ai testimoni di giustizia. Ignazio deve restituire allo Stato una cifra pari a circa 150 mila euro, perché non gli è mai stata applicata la sospensione prefettizia che spetterebbe agli imprenditori che come lui hanno detto di no alla mafia. Nonostante questo, l’intervista inizia e finisce con dei ringraziamenti.
Ignazio, invece di dirle grazie, lo Stato le sta complicando la vita?
Noi testimoni di giustizia abbiamo fatto la nostra scelta e nessuno ci deve ringraziare. La prego non scriva che sono un eroe. Quello che ho fatto lo rifarei mille volte, perché sono un cittadino libero, una persona che guarda avanti. Sono io che devo ringraziare chi mi sta aiutando e prima di tutto i ragazzi della mia scorta.
Lei ha ancora fiducia nello Stato?
Sempre. Anche prima di entrare nel programma di protezione. Però sono convinto che in Italia ci siano due tipi di Stato.
Ovvero?
Da una parte ci sono la magistratura e le forze dell’ordine, sempre vicini a chi denuncia. Poi c’è uno Stato politico e burocratico che fa finta di non sentire. Ovviamente, anche qui ci sono delle eccezioni, anche se nell’ambito dell’antimafia girano sempre gli stessi nomi.
Le manca il suo lavoro da imprenditore?
Mi mancano i calli sulle mani. Dopo le denunce non sono più riuscito a lavorare. A causa dei debiti che ho accumulato mi hanno tolto il Durc, il documento di regolarità contributiva, necessario per ritornare a svolgere la mia attività di imprenditore.
Lei è testimone di giustizia dal 2008. Ma la sua storia inizia molto prima…
La mia storia inizia il 10 ottobre del 99. In quella data la mafia è entrata nella mia vita.
Cosa è successo?
Stavo facendo dei lavori a Bivona, in contrada Campotino. Quella sera mi arrivò una chiamata da mio nipote, per avvertirmi che una pala meccanica stava andando a fuoco. Ho subito pensato che il danno fosse derivato da un corto circuito. Invece tutti gli indizi riconducevano ad un incendio doloso. E’ stato il maresciallo dei carabiniere ad aprirmi gli occhi, chiedendomi se avrei voluto sporgere denuncia conto ignoti.
Non ha pensato subito ad una vendetta?
No. Sono cresciuto figlio d’arte, mio padre era un piccolo imprenditore e non ha mai avuto problemi. Poi nell’89 ho deciso di aprire una mia ditta che, fortunatamente, è cresciuta rapidamente.
Hanno mai provato a corromperla?
Mai. E non ho mai pagato un centesimo. Da noi c’è un detto: «dimmi chi frequenti e ti dirò chi sei». In Paese tutti mi chiamavano “lo sbirro” perché passavo gran parte del mio tempo con i carabinieri. Insomma sapevano che avrebbero sprecato il loro tempo.
Le minacce e le ritorsioni con che frequenza si sono verificate?
Dal 1999 al 2006 ho subito lettere minatorie, attentati, intrusioni in casa. Ho sporto più di 28 denunce contro ignoti. Alcune delle persone, che ora sono state condannate, sono cresciute con me. Tra questi c’è il mio ex compagno di banco, Luigi Panepinto.
Prima di avere la scorta come si difendeva?
Non ho mai avuto armi. Ho iniziato con delle pietre e una spranga. Quando lavoravo fuori da Bivona dormivo in macchina. Gli attentati che ho avuto nel 2006, poi, sono stati distruttivi. A Ribera mi hanno dato fuoco a tutto il materiale, tranne ai mezzi che parcheggiavo di fronte alla caserma dei carabinieri di Bivona. Poi un bel giorno il sindaco Panepinto ha deciso di piazzare proprio lì un cartello: divieto di sosta con rimozione dei mezzi pesanti.
Quando è entrato nel sistema di protezione?
Nel 2007 sono stato avvicinato dalle forze dell’ordine e per un periodo mi hanno sottoposto a molteplici controlli, tra i quali l’inserimento di cimici in casa. Nel 2008 sono entrato nel programma di tutela e di vigilanza per salvaguardare l’incolumità mia e dei miei familiari.
Chi le ha dimostrato fin da subito solidarietà?
Alcuni politici si sono interessati al mio caso. I comuni vicino a Bivona invece mi hanno totalmente ignorato. Per non parlare dell’atteggiamento dei sindaci.
E il suo sindaco?
Il mio sindaco, Giovanni Panepinto, si è offerto di pagare una parte dei debiti che avevo con l’Inps. Stessa proposta mi è stata fata dal governatore della regione Sicilia, Lombardo. Ma io non voglio questo. Io ho solo chiesto più volte l’applicazione della sospensiva da parte degli enti dello Stato. Il paradosso più grande, però, è che mentre le banche hanno accolto la mia richiesta di congelare alcuni debiti, l’Inps e l’Agenzia delle Entrate mi stanno distruggendo.
Perché non vuole aiuto?
Non si tratta di non voler aiuto. La sospensione prefettizia per gli anni 2009 e 2010 non è mai stata applicata per un errore commesso dagli enti dello Stato. L’Inps e l’Agenzia delle entrate non hanno mai risposto alla mia richiesta di avere delle spiegazioni e oggi mi trovo a dover rateizzare una cifra spropositata. Ho anche lanciato un appello alla prefettura affinché sensibilizzasse questi enti.
Se ci fosse stata l’applicazione della sospensiva?
I debiti sarebbero stati congelati e mi avrebbero consegnato questo fantomatico documento: il Durc.
Nonostante per i testimoni di giustizia ci sia un programma particolare, nel momento in cui le imprese sporgono denunce contro ignoti rientrano in un vortice impressionante. Io combatto contro un vuoto normativo inconcepibile.
A che punto siamo oggi?
C’è stata un interrogazione parlamentare del 18 gennaio 2012, dove il ministro dell’Interno Cancellieri ha dichiarato che il direttore provinciale dell’Inps ha fornito ampia disponibilità al rilascio del documento di regolarità contributiva, non appena io paghi la prima rata mensile, pari a 369 euro. Mi danno quindi la possibilità di rateizzare le circa 23 mila euro che devo all’ente.
Ora ce l’ha il Durc?
Scherziamo? Sono andato alla Serit e mi è stato detto che devo rateizzare tutto l’imponibile, e non solo l’Inps. Ma come faccio a rateizzare 3.500 euro al mese se non ho neanche i soldi per mangiare?
Mi chiedo: la Cancellieri e la Serit si parlano? Qualcuno ha informato il ministro di questo? Sono entrato in un vortice burocratico impressionante. La cosa più triste, alla fine, è che non mi sono mai piegato alla mafia e oggi rischio di piegarmi alla burocrazia dello Stato.
Con questo Durc lei ha una storia infinita?
Il 20 gennaio 2012 ho rateizzato una parte dei soldi che devo ad alcuni enti e ho rifatto la richiesta per il Durc. Oggi pago 580 euro al mese per rimettermi in regola. Ma il Durc è ancora negativo.
Si sente avvilito?
Continuo a credere nello Stato. Quello vero. Lo stato aiutando Ignazio Cutrò non aiuterà Ignazio Cutrò, ma lancerà un messaggio forte e chiaro agli altri imprenditori: lo Stato c’è, lo Stato è presente.
Lei ha fondato una associazione antiracket…
Si: Libere Terre. Ma ho anche fondato due sportelli antiracket, uno ad Agrigento e uno ad Enna.
Chi vi finanzia?
Scusi ma l’antimafia è diventata un mestiere? Noi non prendiamo né chiediamo soldi allo Stato. Viviamo sul volontariato delle persone, dei nostri avvocati, psicologi e operatori. Siamo parte civile nei processi di mafia e i soldi che prendiamo li destiniamo al Fondo di rotazione per la Solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso.
Se ne andrà mai dalla sua terra?
Solo quando sarà la mia famiglia a chiedermelo. Ma in quel caso non avrò perso, avrà perso lo Stato. Io ho fatto questa scelta per la mia dignità di padre di famiglia, di imprenditore ma prima di tutto di uomo. Non posso sentirmi dire: «se lei se ne va, noi le diamo “x” euro. Io ho bisogno dei calli nelle mani. La mia dignità di imprenditore non si può distruggere così».
E i suoi figli glielo chiederanno mai?
Non posso prevederlo. Quello che posso dirle è che mio figlio Giuseppe a 22 anni si ritrova a fare il primo anno di ingegneria civile. Grazie all’aiuto del sostegno delle forze dell’ordine che lo scortano ogni mattina. Mia figlia, invece, quando è entrata a far parte del programma speciale non è più voluta andare a scuola.
Qualcuno lavora nella sua famiglia?
Ad oggi nessuno. È dal 2008 che la mia azienda è ferma. Ho anche rischiato di aver tagliata la luce.
Vi sentite soli?
A Bivona sì. Ho passato il Natale con la famiglia dell’arma dei carabinieri. I primi tempi entravo nei bar e le persone uscivano. Una volta dal barbiere un mio conoscente si è asciugato la schiuma da barba ed è uscito. Ma io continuo a tirare “pacche” sulle spalle e a salutare le persone. Da noi si dice che «alla gente piace stare nel raro pitrune», che tradotto significa che alle persone piace stare dietro la pietra ed osservare quello che fanno gli altri.
Come si fa ad avere coraggio a Corleone?
Non lo so. Ma posso dirle che a Palermo i cittadini iniziano a prendere coscienza e vanno ad applaudire le forze dell’ordine quando arrestano dei mafiosi.
Ci sono sviluppi nel processo Face Off?
Sono state parzialmente riformate alcune condanne inflitte dal Tribunale di Sciacca in primo grado. Alcune fatture che ho ritrovato, comunque, parlano per me. Mi sono accorto, ripercorrendo 12 anni della mia vita attraverso diversi documenti, che quando facevo le forniture di calcestruzzo alla famiglia Panepinto non mi è mai successo niente. Quando, invece, mi appoggiavo ad altre imprese ho sempre subito attentati. Attentati arrivati puntuali dopo il quindicesimo giorno. Qualche giorno fa al termine della mia ricostruzione mi sono sentito un cretino: questa è la firma che la famiglia Panepinto ha messo a tutti i disastri che ho subito.
Alla fine dell’intervista è Ignazio Cutrò che mi chiede una cortesia: quella di poter ringraziare l’arma dei carabinieri e tutte le persone che gli sono state vicine. Tra queste il generale Riccardo Amato, comandante legione Sicilia. Sono sicura però che anche lo Stato vorrebbe ringraziare Ignazio per quello che sta facendo. Andrea Genna, presidente del Tribunale di Sciacca, ad esempio, lo ha già fatto attraverso alcune righe di apprezzamento nei confronti di un imprenditore, che non soltanto si è ribellato alla cultura mafiosa, ma si è messo a disposizione collaborando con gli investigatori.