«Tra tutti gli oligarchi possibili, altrettanto ricchi e potenti, perché Putin ha scelto di colpire proprio Michail Khodorkovsky? Anche se non determinante, c’è un aspetto antisemita in questa faccenda. Ed è quantomeno curioso che l’Affaire più controversa e clamorosa del governo Putin sia stata rivolta, di fatto, contro un ebreo. Il Kgb è da sempre abituato a scaricare tutto sugli ebrei e la forma mentis di Putin si modella lì. Ma il caso Khodorkovsky, attenzione, non ci parla tanto della gente comune quanto dei cascami e delle sopravvivenze del vecchio antisemitismo russo dentro l’apparato politico. E ovviamente di una feroce lotta di potere. Non dimentichiamo che, tradizionalmente, nei momenti di cambiamento, gli ebrei sono sempre stati dati in pasto alla gente. Solo che stavolta non ha funzionato, malgrado i russi ce l’abbiano a morte con gli oligarchi. Oggi quasi tutti tifano per Khodorkovsky che lucido, intelligente e carismatico com’è, è diventato un eroe da contrapporre al Cremlino. La verità è che la vera rivoluzione russa l’hanno fatta i telefonini e i social network: grazie a loro i russi non possono più essere tenuti isolati e lontani da ciò che accade. Possono ascoltare tutte le voci e sapere che cosa pensano gli altri. L’acquisizione dei diritti civili è stato un grande regalo della tecnologia delle comunicazioni».
A parlare così è Serena Vitale, slavista di fama internazionale, scrittrice e saggista, docente di Letteratura russa all’Università Cattolica di Milano, autrice del recente e interessantissimo saggio A Mosca, a Mosca!, Mondadori, titolo cechoviano per eccellenza. Interessante non solo perché ci narra dei tempi del defizit e lo squallore della Russia di Breznev, Gorbaciov e Elstin, ma anche perché getta interessanti semi di comprensione sulla Russia di oggi, da far germogliare in qualche incontro ravvicinato con Mosca o San Pietroburgo. Serena Vitale cita –come una vittoria dei diritti civili –, l’esempio della corrispondenza oggi pubblicata in un libro, tra lo stesso Khodorkovsky, dal carcere, con la scrittrice ebrea Ljudmila Ulitzkaya, considerata tra i talenti letterari contemporanei: è questa corrispondenza e il fatto stesso che sia stata pubblicata che ci indica quanto Putin tenga a puntellare un’immagine di statista attento ai diritti civili, malgrado i più di 300 giornalisti uccisi sotto il suo regno.
«Certo, oggi nessuno si azzarda più a pronunciare quell’insulto terribile usato dall’homo sovieticus fino a pochi anni fa, zhidovskaya morda, “grugno da ebreo”. Oggi la strategia dell’odio e del furore è stata indirizzata da Putin verso i caucasici, i georgiani, armeni, ceceni, azeri… Sono loro le vittime sacrificali adesso, come un tempo gli ebrei, sono loro il nemico straniero che ti fa del male, che quindi va punito e che suscita schifo, come è accaduto per gli ebrei fino alla Perestrojka compresa. Oggi il vero rischio per gli ebrei sta semmai in una eventuale vittoria delle spinte nazional-scioviniste che sono il 30 per cento dell’opposizione. Se poi si unissero all’esercito sarebbe un disastro. Anche il recupero di Stalin come grande stratega e vincitore dei nazisti da parte di Putin, ripropone un modello pericoloso di grandeur: e quando c’è odore di Grande Russia c’è sempre odore di antisemitismo. Senza dimenticare che la Chiesa ortodossa non ha mai subito quel processo di revisione del Vaticano II verso gli ebrei, che è permeata da un forte retaggio anti-giudaico, che quasi perseguita i papisti cattolici e che appende ritratti giganti di Stalin nei suoi refettori, come ad esempio a Zagorsk. Fortissima chiesa in fortissimo Stato, questo è il mondo cristiano ortodosso oggi, col nuovo Patriarca legato a Putin a doppio filo».
Come tutti ricordano, l’antisemitismo è stato un capitolo sanguinoso della storia russa e sovietica, una vicenda di odio, disprezzo, delazione, torture, emarginazione sociale e professionale. Serena Vitale conclude ricordando che persino la grande poetessa russa Marina Cvetaeva, figlia di antisemiti convinti, russa fino al midollo, arretrava sbigottita davanti alla barbarie irrazionale di quel sentimento di avversione. Lei stessa conosceva bene quel dolore della diversità e della marginalizzazione, e ripeteva che laddove ci fosse stato qualcuno che parlando degli ebrei usasse per indicarli il termine dispregiativo yid, immediatamente anche lei stessa si sarebbe detta yid e che laddove c’era odio antiebraico lei diventava subito ebrea.