A dispetto della distanza temporale che ci separa dalla Prima Repubblica, resistono in Italia liturgie del potere che ancora oggi riescono a fare riassaporare le emozioni intense di un vertice del pentapartito. Una di queste è la riunione del “Patto Rcs”: espressione esoterica che indica l’accordo fra alcuni grandi soci per controllare il gruppo che pubblica il Corriere della Sera. Il Patto tiene insieme Mediobanca, Fiat, il gruppo Pesenti, Pirelli, la Fondiaria Sai dei Ligresti, Intesa Sanpaolo, Generali, Mittel, Diego Della Valle (Tod’s): nessuno dei quali ha un sincero interesse strategico industriale per il mondo dell’editoria, e lo si è visto in questi anni. Quello che conta è poter influenzare la linea editoriale del quotidiano di via Solferino.
Il “Patto Rcs” è come si dice spesso il “salotto buono della finanza”, anche se questo nulla garantisce sulla bontà dei suoi singoli frequentatori. Esservi ammessi è ritenuto segno distintivo riservato solo a chi ben relazionato e ha potere e affidabilità ormai consolidati. Può capitare che si debba attendere anni prima di ottenere il placet: ne sa qualcosa il reuccio della sanità privata lombarda Giuseppe Rotelli. Non deve perciò stupire che nel 2005 il tentativo di scalata alla Rcs da parte di Stefano Ricucci provocasse sgomento fra i grandi soci del gruppo e accuse di sacrilegio. Anche se fa sorridere un sistema di potere che si fa spaventare dal primo immobiliarista che passa, lo sgomento vero è che a portare avanti una vaga logica di mercato – al netto delle irregolarità emerse (la legge è sempre dura lex con i nemici del Patto) – fosse un Ricucci finanziato perdipiù da Fiorani.
Al Patto Rcs, del resto, non si ambisce per fare affari nell’editoria, che se mai è mezzo per farsi altrove e meglio i propri affari. La prova è da sempre nello stato dei conti del gruppo. Rcs ha chiuso l’anno 2011 con una perdita superiore ai 300 milioni, e ancora oggi fatica a vedere una via d’uscita, dopo l’infelice acquisizione di Recoletos in Spagna per oltre 1,1 miliardi (incluso debiti per 272 milioni). Non va peraltro dimenticato che l’operazione, gestita dall’attuale amministratore delegato Antonello Perricone, fu sponsorizzata da Mediobanca, in qualità di advisor, e finanziata in buona parte dall’altro socio bancario, Intesa Sanpaolo. Nonostante gli interventi di “efficientamento”, le attività spagnole restano un problema che richiederebbe soluzioni d’urto. Serve cioè un aumento di capitale per abbattere il debito. I soci non sono stati disposti a farlo e hanno optato per una soluzione meramente contabile che evita l’abbattimento e la ricostituzione del capitale. Servirebbe ancora di più che il gruppo si dotasse un management indipendente, credibile e orientato alla redditività.
In vista del rinnovo del cda, la riunione di ieri del Patto ha partorito una lista di candidati con un “presidente di garanzia”, l’ex rettore della Bocconi Angelo Provasoli, un consiglio formato in prevalenza da indipendenti per così dire “di area”, vicini a questo o a quel socio, cui si aggiunge il presidente uscente Piergaetano Marchetti, notaio e gran cerimoniere del Patto. Piccola nota: dopo sette anni di presidenza Marchetti viene nominato “indipendente”, a testimoniare di come la categoria di indipendenza sia davvero labile. Dal futuro cda sono rimasti fuori, invece, i vertici dei grandi soci, e in particolare di Fiat, di Mediobanca e di Intesa Sanpaolo: un cambio di passo o un passo indietro di facciata? Per la sostituzione dell’a.d. si vedrà nelle prossime settimane: ma è su questo che è divampato lo scontro fra Della Valle, da un alto, e Renato Pagliaro e John Elkann, presidenti rispettivamente di Mediobanca e di Fiat, dall’altro.
Mediobanca parla di «separazione più netta tra proprietà e gestione aziendale ai fini di una maggiore indipendenza e prospettiva di rilancio della stessa». Argomenti che Della Valle, nell’annunciare a sorpresa la sua uscita polemica dal Patto, ribalta contro Mediobanca e Fiat, accusate di «comportamento maldestro e pretestuoso». Secondo Mr Tod’s, «nella composizione del patto Rcs ci sono due anime: quella di azionisti che, come imprenditori, a casa loro, sono abituati a competere nei mercati cercando di ottenere sempre i risultati migliori per le loro aziende e quella di altri che vivono lontani dalla cultura dell’impresa e preferiscono ottiche di tipo corporativo di vecchia scuola». Non è il caso di avventurarsi in sofisticati distinguo sulla natura dei soci del Patto: nessuno di loro è entrato o resta nel club Rcs con un’ottica imprenditoriale o di creazione di valore, ma tutti ci convivono con una chiara strategia relazionale e di lobby. Le parole insolitamente aspre di Della Valle contro Pagliaro ed Elkann («il comportamento maldestro e pretestuoso di alcuni soci in questi ultimi giorni mi ha spinto con determinazione a richiedere di liberare il mio pacchetto azionario da ogni vincolo») confermano semmai che i dissidi non sono certo sorti su strategie e piani aziendali quanto piuttosto su spartizione di poltrone e nomine, e quindi in definitiva su questioni di puro potere. Ha vinto chi, a cominciare da Mediobanca, ha accompagnato fin qui le strategie perdenti di Rcs. Ma questo non autorizza né Della Valle ad accusare gli ex alleati di tradimento di chissà quali logiche di mercato che non si sono mai viste dentro il Patto Rcs, men che meno Mediobanca a rinfacciargli «istanze personalistiche». Se poi Della Valle avesse davvero investito in Rcs pensando solo alla crescita e ai dividendi, se ne faccia una ragione: ha messo i soldi nel posto sbagliato, buttandosi un mestiere che non era il suo.