BUSSOLENO – Se non fosse per una ragazza in un bar appena fuori Bussoleno, il fronte No Tav apparirebbe inscalfibile: «Sono solo dei fissati». La protesta «continua solo perché di mezzo ci sono tanti ragazzi delle scuole che, appunto, non vogliono andare a scuola». Per il resto, «danno fastidio: bloccano le strade e non si può uscire dal paese nel weekend». Come lei la pensano, con toni meno accesi, anche alcuni sindaci dell’Alta Valle: da Sestrière a Sauze d’Oulx, hanno chiesto di togliere i presìdi «almeno nel weekend». Altrimenti si danneggia il turismo: tutti quegli sciatori della domenica che, spaventati dai disordini, preferiscono andare da altre parti.
Ma nella Bassa Valsusa è tutta un’altra cosa: le bandiere dei No Tav sono a ogni angolo del paese. C’è agitazione. Nelle strade sembra che non si parli d’altro. «Hanno lanciato i lacrimogeni nelle case», dicono. «E hanno spaccato la vetrina di un bar, sono entrati con violenza». Vero: c’è anche un video che lo dimostra. Solo che «la proprietaria, poi, ha detto che non era una cosa grave “è stato solo un equivoco”». «Certo: quella è moglie di un carabiniere» dice un altro. «Ah: allora è una collaborazionista. Lo si deve scrivere su un cartello: “Questo è un bar collaborazionista” e lì non ci deve andare più nessuno» dice un anziano, il più grosso di tutti. Scherza, ma non esagera: non è un caso che a Bussoleno si ripeschino parole antiche. Se il vocabolario riprende termini come collaborazionismo, vuol dire che c’è un nemico, e che c’è una guerra. O qualcosa di simile.
«Sì, noi ci sentiamo così», spiega a Linkiesta Nicoletta Dosio, 66 anni, leader del movimento.Ex segretario del Partito della Rifondazione Comunista, primissima attivista NoTav. Arriva alla Credenza, il ristorante-“covo”, dei capi del movimento. Cammina con fatica («ieri notte gli agenti mi hanno preso e trascinato via») e porta alcune bibite. Giusto in tempo per la trasmissione, in diretta con Radio Blackout. Salutata dai compagni, si fa strada tra i manifesti di Karl Marx, Lenin e Mao Tse Tung, e la gommapiuma delle manifestazioni. Tutti insieme, raccontano le violenze della polizia. «Un macello. Gli agenti cominciavano a caricare. Stavano per catturare una madre, con vicino la bambina. Io mi sono messa in mezzo: “prendete me, piuttosto”». L’hanno trascinata sul furgone. «Mi hanno insultata in ogni modo, mi hanno chiamata “ubriacona”». Gli altri sorridono. Ora, però, è in salvo. Ad altri è andata peggio: «Ci hanno portato in questura a Torino», racconta una ragazza, arrivata trafelata al quartier generale. Uno è rimasto in arresto.
Il movimento NoTav «ormai non è più una cosa locale», spiegano. «Vengono anche da fuori ad aiutarci. Dall’Italia, e dall’estero». È il sostegno di centri sociali, come Askatasuna di Torino, o il Takùma di Avigliana, che ha proiettato il movimento in una dimensione nuova. E ha fornito anche la manodopera nelle manifestazioni e per le proteste più violente, con il supporto della popolazione. Loro, però, preferiscono parlare d’altro, «La gente ci sostiene perché vede in noi la resistenza». Un’altra parola non usata a caso. «In noi non c’è solo la lotta per la nostra valle: noi siamo per un’altro mondo. E dimostriamo che si può fare, resistendo. Noi siamo una speranza».
Nelle loro azioni e nei progetti, raccolgono in sé un impasto di mitologie: al primo posto c’è la Resistenza, quella dei partigiani. «Noi veniamo da lì», dice. «Ci hanno insegnato tutto: ci ricordano che tagliare le reti [quelle delle recinzioni] non è reato, se lo Stato è ancora fascista come allora». Non mancano i miti della lotta armata degli anni Settanta: se ne prendono gli slogan. Come allora, poi, i manifestanti vivono la realtà come una lotta. «Creiamo così i veri legami, più forti di quelli di sangue», continua. E non manca nemmeno la stagione delle Radio Libere: brilla, durante la trasmissione di Radio No Tav, un bagliore dell’epica di Radio Aut. Non è un caso, nemmeno stavolta che Marco Bruno il manifestante della “pecorella” parlava di Peppino Impastato come del suo mito.
Non solo. La resistenza al Tav i miti li crea anche: fatti di atti di coraggio che vanno a formare un nuovo pantheon. Dopo l’arrampicata (e la caduta) dal traliccio, anche Luca Abbà ha cominciato a farne parte: il suo nome risuona nelle manifestazioni. Oppure leader carismatici come Turi Vaccaro che gira a piedi nudi, con vestiti sdruciti e capelli bianchi al vento. È diventato un mito per aver fermato i bulldozer restando fermo, in piedi, davanti a loro. Li ha colpiti lanciando contro di loro uno spicchio d’aglio. Anche lui alla Creedenza si aggira inquieto. «Ero in Olanda, sono venuto in Valsusa perché ho sentito una chiamata dal cielo», spiega alla radio, con toni da santone. Poi ripartirà di nuovo: «Andrò in Palestina. Forse lì avrò la fortuna di incontrare il mio amico». Intendendo Gesù Cristo. Sono nuove mitologie che crescono e diventano una storia collettiva, che va avanti ogni volta insieme alle azioni dimostrative: la pratica della teoria.
E il tema ecologico? È forte. Salvare il territorio «è un dovere». Non è solo la spinta iniziale della protesta: è il segno di una concezione dell’economia diversa: «a piccola scala, con un ritorno alla visione del lavoro come sistema di mantenimento sociale», spiegano. La Val di Susa resiste, come l’ultimo baluardo di un mondo che non c’è più. «E perché invece non il primo baluardo?», chiedono. Del resto, «una delegazione di Guatemaltechi è venuta a Bussoleno per imparare le nostre tecniche di resistenza. Hanno un problema simile: da loro stanno costruendo una diga, e si vogliono opporre. Noi abbiamo insegnato tutto quello che sappiamo». L’idea si propaga. Il piccolo mondo antico di una comunità in lotta diventa un marchio di resistenza nel mondo.
Lotte e battaglie per difendere il territorio sono di tutta la comunità. È un tema comune, «ed è anche cattolico», come spiega Gabriella Tittonel, credente e attivista contro il Tav. «Siamo contro la distruzione del territorio: il nostro compito è la salvaguardia del creato», dice. «Anche noi siamo chiamati all’azione. Lo ha detto Gesù Cristo: noi dobbiamo essere il lievito e il sale della Terra». E la forza attiva. Anche i NoTav cattolici organizzano manifestazioni, processioni, e veglie di preghiera «l’ultima l’abbiamo fatta, a staffetta, sotto il Cto. Abbiamo pregato per Luca Abbà», spiega. «Perché si salvasse». In Clarea hanno un pilone votivo, «che adesso è stato compreso nelle recinzioni». Ma «noi ci andiamo lo stesso a pregare». Insieme a loro celebra anche qualche sacerdote, «anche se le istituzioni della Chiesa sono molto tiepide». Ma non conta. «È sempre così: si parte dal basso, poi i vertici vengono a ruota: noi siamo la truppa. Poi verranno i generali».
Ancora, anche qui, la metafora è bellica. Ma le preghiere funzionano? «Sì, ne sono certa. Qualcosa si muove. Dall’alto un aiuto arriverà. È faticoso, ma noi andiamo avanti». Ma l’obiettivo non è solo salvare la Valle, ma «creare un mondo nuovo». Anche qui, fatto di piccole economie, di interessi di comunità. «Dove i bambini imparano a stare insieme, e dove cominciano a fare lavori umili. Per stare vicini alla terra». Dio c’è, perché «noi sentiamo che sta nascendo un mondo nuovo, qui che sta interrogando tutta l’Italia, e tutta l’Europa, che stanno andando allo sfascio. Attenzione: le cose possono funzionare in modo diverso», sorride.
Anche i cattolici hanno le loro eredità: «Questo è un territorio dove sono stati dati insegnamenti importanti. Penso a sindaci come Carretto, o Achille Croce. O il nostro beato Rosaz, un maestro dell’Ottocento». Per loro, sono esempi «significativi, intelligenti, umani». E soprattutto, nella lotta possono rivivere quegli esempi, riprendendo in mano il passato.
Tradizioni, terra, eredità. Il legame che tiene tutto unito è forte. La Val di Susa è un angolo di mondo che, rifiutando il passaggio dell’Alta Velocità, è diventato il simbolo della resistenza a tutto un modello di sviluppo e di politica. Una posizione che ha trovato forza nella crisi economica. «Ha trovato nuova linfa: non è più solo una questione di territorio. È una questione di modello di vita», spiega a Linkiesta Sandro Plano, ex sindaco di Susa, presidente della Comunità Montana e, soprattutto, esponente Pd. «Io, intanto, rischio il de-tesseramento dal partito per la mia posizione contro il Tav», spiega.
Il suo ruolo è difficile: rappresentare una comunità in lotta e intanto parlare con il partito che, invece, appoggia il progetto. «Hanno bloccato il Ponte sullo Stretto. Hanno bloccato le Olimpiadi. E perché non bloccano il Tav?», chiede. Sono domande che si fanno in tanti, ma che – a quando dicono – non vengono ascoltate. il dialogo con le forze politiche non c’è. La Lega, che pure dovrebbe avere simpatia per i movimenti spontanei nel territorio, è per il Tav. Il Partito Democratico si è detto per il Tav (con il prezzo della sconfitta di Mercedes Bresso del 2010). Il Popolo della Libertà anche. E ora anche il nuovo presidente Mario Monti è deciso. I valligiani sanno questo, e non votano per nessuno.
E allora, nel teatro di una Valle così strana, aggrappata alle sue tradizioni, arrivano le televisioni. Si dividono il prato del centro Santoro (nella persona di Sandro Ruotolo) e Formigli (nella persona di Alessandro Sortino) e si dividono anche il pubblico: i giovani ascoltano PiazzaPulita, gli anziani Servizio Pubblico. Le storie che si intrecciano sotto i riflettori sono tante: sono racconti di resistenze e mafie, di denunce alla politica e di contrasti. Ma anche di solidarietà, di persone che lottano perché «abbiamo tutto da perdere. Ma non la certezza di avere ragione».
Leggi anche: