“Riforma del lavoro? Senza la paccata di miliardi è dura”

“Riforma del lavoro? Senza la paccata di miliardi è dura”

«Ma siamo sicuri che una recessione sia il momento giusto per fare una riforma degli ammortizzatori sociali?» si chiede Tito Boeri, professore ordinario di Economia del Lavoro alla Bocconi. Il problema, spiega, è semplice. «Per fare una riforma seria in condizioni di stress, ci vuole davvero una “paccata” di miliardi. Non mi risulta che il Governo abbia a disposizione queste risorse». Un timore diffuso. Alle parole di Boeri fa eco Michele Tiraboschi, docente di Economia Aziendale all’Università di Modena-Reggio Emilia e allievo di Marco Biagi.«Non si sentiva bisogno di questa riforma. In emergenza – aggiunge – si agisce con strumenti straordinari, non con mezze riforme che alimentano solo insicurezze». E soprattutto, è «indicativo è il fatto che la proposta, finora, ha scontentato tutti». Cioè sindacati, Confindustria e tanti altri. Ma perché?

«Premetto che, non essendo impegnato nella trattativa, non posso conoscere le carte», spiega Boeri. «Se la riforma non fosse seria, sarebbe un pessimo segnale per i mercati. Fondamentale che la riforma consideri i soggetti più deboli, come i lavoratori precari». Secondo quanto emerge, lo scenario della riforma esclude il lavoro parasubordinato. «Non si può certo immaginare di creare un’assicurazione per i precari, ma almeno si può trasformare il parasubordinato in lavoro anche formalmente subordinato», spiega.

Ma i problemi sono più ampi. Ad esempio, la mobilità dei lavoratori anziani che perde il lavoro sarebbe coperta per un massimo di due anni, o diciotto mesi. «È un problema grave. In questi casi, si agisce su tre livelli. Il primo è la cassa integrazione, che al momento è gestita malissimo. Si dovrebbe andare in un’altra direzione: come fanno in Germania, invece che mettere i lavoratori a zero ore, è meglio tenerli in azienda e farli lavorare a orario ridotto». Il secondo? «Il sussidio di disoccupazione,che dia al lavoratore il tempo di cercare un’altra occupazione. E poi il terzo, il sussidio di assistenza sociale, che arriva quando il lavoratore è in mancanza di alternative». Sono tutti rimedi costosi dal punto di vista fiscale, che vanno a incidere in modo forte sula società. «Proprio in un momento di crisi. E allora torno alla mia domanda iniziale: è il momento di farla ora questa riforma?».

Secondo Tiraboschi c’è di più: la riforma presenta anche altri difetti. «È pensata su base universale», cioè «con una pericolosa assimilazione tra grande e piccola impresa. Tra settore industriale, servizi, commercio e artigianato. Un’assimilazione improponibile», che ha anche i suoi costi: «Per la piccola impresa comporta un aumento secco del contributo di disoccupazione dello 0,90 per cento». Con l’effetto, rischioso, «di una ulteriore fuga nel sommerso e nel lavoro nero».

La riforma si propone, tra le altre cose, di incentivare alcune politiche di occupazione. In particolare, il disoccupato che dispone di un sussidio, è obbligato ad accettare il lavoro della agenzia di collocamento. «La regola, ragionevole, secondo cui un percettore di sussidio pubblico deve accettare una offerta congrua di lavoro esiste dalla legge Biagi e non è mai stata applicata», spiega Tiraboschi. «Ciò detto è evidente che la definizione di lavoro congruo può dar luogo all’obbligo di accettare un lavoro con retribuzioni inferiori (la legge ora parla di un 20 per cento in meno come massimo)». Ma, conclude Tiraboschi, «È però anche vero che il sussidio copre poco e per poco tempo. Per cui un lavoro alternativo è meglio che niente».

Ma, anche se poco amata, la riforma avanza. Sindacati e Confindustria hanno già espresso il loro scarso apprezzamento. Come finirà, sarà evidente tra pochi giorni. Ma anche un governo tecnico, sembra sempre un periodo difficile per fare riforme. 

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