La Siria è un mattatoio. Il massacro di Homs, con la scoperta dei corpi di tanti civili, ha fatto il giro del mondo. Il presidente Bashar al Assad scarica ogni colpa sui “terroristi”. La Nazioni Unite parlano di “assalto militare” e di “operazioni vergognose”. L’inviato Kofi Annan chiede la cessazione delle violenze e l’apertura di corridoi umanitari. Violenze non nuove perpetrate in un’area nella quale archeologia e politica sembrano legate tra loro, quasi indissolubilmente. Da sempre.
Ai fenomeni naturali e all’incuria, i quali generalmente costituiscono il comune, grande, nemico di monumenti di ogni tipo disseminati per il pianeta, si aggiungono peculiarità, per così dire, locali. Causa-effetto della loro rovina. Mali caratteristici di diversi ambiti territoriali, oltre che cronologici. Così, se per l’archeologia greco-romana in ambito italiano è fin troppo facile richiamare la dissennata urbanizzazione, pubblica e privata, è ugualmente agevole imputare gran parte delle distruzioni sofferte dall’archeologia orientale – e siriana in particolare – al deflagrare di una serie quasi infinita di conflitti. La guerra civile libanese, ad esempio, tra il 1975 e il 1990, ha comportato la cancellazione di Kumidi, un importante centro antico. La guerra anglo-americana in Iraq, tra il 2003 e il 2011, ha provocato i saccheggi di alcuni siti storici fondamentali, come alcune delle capitali del Sumer e della Babilonia quali Umma e Isin.
Tiro, Babilonia e Kish, centri nei quali la storia è un sovrapporsi infinito di strati archeologici, sono utilizzate come sedi di quartieri militari. Musei, come quelli di Baghdad e del Cairo, sono divenuti il centro di razzie di bande organizzate, con gravi danni e perdite di importanti tesori archeologici. Nell’aprile del 2003, ad esempio, l’Iraq Museum di Baghdad fu sottoposto a incursioni di saccheggiatori che distrussero le strutture espositive, gli archivi e i laboratori di restauro. Migliaia di reperti furono trafugati, tra cui una quarantina di eccezionale importanza come la Dama e il vaso di Uruk, e il bronzeo Porta-stendardi da Ur. Senza contare i 3.500 oggetti spariti dai musei regionali di Basra, Kufa, Babilonia, Maysam, Qadissiya, Assur, Kirkuk, Dohuk, Suleimaniyeh fino al 2002. Oltre ai danneggiamenti subiti dal Museo egizio del Cairo agli inizi del 2011.
Non si tratta di episodi sporadici, ma esempi di una casistica che parte da lontano. Circostanze che si ripetono in tutta l’area medio-orientale, da secoli soggetta a crisi politiche e a conflitti. Fin dagli inizi: l’Egittologia, ad esempio, è nata con la spedizione di Napoleone nel 1798. I primi scavi in Mesopotamia (a Nimrud, Khorsabad e Ninive) tra il 1842 e il 1845 portarono al Louvre e al Museo Britannico gli straordinari tesori artistici ed epigrafici d’Assiria. E ancora, non si può ignorare che furono Francia e Gran Bretagna – le titolari dei mandati in Libano, Siria, Palestina e Iraq, dopo le delibere di Versailles delle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale – a trarre il massimo frutto archeologico con gli scavi di Biblio, Ugarit, Mari, Lakish, Samaria, Ninive e, soprattutto, Ur.
Il legame tra archeologia e politica proseguirà anche in seguito. Anche nell’attualità, è ancora drammaticamente esistente. Monumenti, testimonianze, che sono – a tutti gli effetti – patrimonio universale dell’umanità, appaiono messi in pericolo da depredazioni selvagge, che alimentano il commercio illecito di materiali e i vandalismi. E allora ecco le asportazioni di antichità a Palmira, trafugamenti dal Museo di Hamah.
Ora, mentre la guerra civile fa aumentare il numero delle vittime, anche le radici del popolo siriano sono minacciate. Le tracce raccontano una storia che comprende la civiltà di Ebla, e poi gli Egiziani e i Babilonesi e, quindi, i Seleucidi e, ancora, i Romani e i Bizantini e gli Arabi e le amministrazioni delle dinastie omayyade, abbaside, in parte dai Selgiuchidi e quindi dai Fatimidi, dagli Ayyubidi e dai Mamelucchi. Poi l’impero ottomano e la fase del colonialismo. Parti di un tutto che hanno lasciato resti, segni della loro grandezza.
Tutti luoghi, città, frammenti di un passato glorioso, ricordati da tanti scrittori dell’antichità greca e romana. Appaiono perfino nella Bibbia e poi descritti da Michael Rostovzev nel suo memorabile saggio Città carovaniere. «… ci sono le città di Carne, Balanea, Palto, Gabala, … Laodicea, Dipoli, Eraclea, Caradro, Posidio, … Antiochia, … Seleucia, detta Pieria … Sulla costa la città di Roso, … le città di Miriandro … Bomite. All’interno … le città di Apamea … Bambice, … Calcide detta sul Belo», scrive Plinio il Vecchio, tracciando la poleografia della Siria.
La scacchiera regolare dell’impianto di Laodicea, con la lunga via principale che attraversa la città nord-sud, o la disposizione ortogonale dell’abitato di Apamea, dominata ad ovest dall’acropoli e anch’essa suddivisa in senso nord-sud da un’ampia arteria, colonnata e fiancheggiata da portici, sono esempi straordinari di un’architettura altissima. Ma soprattutto, sono testimonianze di civiltà evolutissime. Il cui unico torto sembra essere quello di trovarsi, di insistere, in zone nelle quali la conservazione sembra essere messa in pericolo, frequentemente, dalla ricerca del consenso attraverso la cieca violenza.
Mentre le vittime della follia raggiungono il numero esorbitante di 8.000, la Damasco romana, con la sua pianta quadrangolare, la sua grande via colonnata che la taglia in senso est-ovest e la parallela che raccorda il grande santuario di Zeus (ora occupato dalla moschea omayyade), con la piazza dove si è voluto identificare l’agorà, rimane come segno indelebile di una perduta grandezza.
Così come Palmira, la Tadmor ricordata nella Bibbia, Bene protetto dall’Unesco, che con il tempio di Baal, il santuario di Nabu, le terme di Diocleziano, il teatro romano, l’agorà, il santuario di Baalshamin e molto altro, si offre allo sguardo dei turisti come un sito di rara bellezza. Peccato che tutto questo rimanga sullo sfondo, sia il teatro sul quale si svolgono scene che nulla hanno a che vedere il passato glorioso. Quelle bellezze, che dovrebbero costituire un importante tesoro per la crescita del Paese, sono più spesso un ostaggio che continua a mettere a repentaglio la propria incolumità. Anche per l’insipienza, avrebbero detto gli antichi abitanti di quei centri di magnifiche architetture, dei suoi governanti.