VERONA – All’Hellas Bar in borgo Milano, quartiere popolare nella parte ovest di Verona, un barista è stato accoltellato per cento euro. Si fa chiamare Davide, ma il suo vero nome è Cheng, ha 38 anni, ed è arrivato dieci anni fa dalla Cina: se l’è cavata, ma ha rischiato di morire. Il suo aggressore, peraltro coeataneo, è invece un veronese doc: occasionalmente cameriere, un Daspo rimediato anni fa dopo una trasferta movimentata al seguito dell’Hellas. “Mi aveva risposto male”, pare abbia detto al suo avvocato. È un rapinatore ben strano quello che colpisce nello stesso bar dove ha passato due ore, a volto scoperto (circostanza che consentirà la sua rapida identificazione e arresto) guardando la partita. «Non era un cliente fisso, non l’avevamo mai visto – racconta Huifang, detta Lina, la giovane moglie di Davide. – Non ci era mai successo niente prima, Verona mi era sempre sembrata una città tranquilla. Quell’uomo non era ubriaco, sembrava una persona normale. Forse lui pensava che ci fosse ancora il vecchio proprietario, non noi cinesi».
Con tutta probabilità, non si saprà mai se la nazionalità di Davide abbia avuto qualcosa a che fare con un’aggressione che, per la sua violenza e gratuità, ha avuto vasta eco in città. Verona appare effettivamente tranquilla, come dice Lina, e ci si vive bene. Certo le rapine sono un fenomeno in crescita, lo stesso questore ha messo in relazione l’aumento di reati predatori anche alla crisi economica. Ma se c’è un nervo scoperto è quello dell’etichetta di estremismo o razzismo che la città si vede spesso affibbiare, benché episodi di cronaca al riguardo siano rarissimi. C’è sempre l’annosa questione degli ululati contro i giocatori di colore allo stadio, che fruttano regolarmente multe salate all’Hellas, come l’ultima – da ben 40mila euro – dopo un’esaltante vittoria a Torino: il presidente Giovanni Martinelli si è infuriato, per l’ennesima volta, parlando di “un’ostinata minoranza” che si rifiuta di rispettare le regole.
«Se c’è una cosa che mi fa arrabbiare è l’accusa a Verona di essere becera o razzista», dice monsignor Bruno Fasani, già direttore del settimanale della Curia, Verona Fedele, voce influente della chiesa scaligera e oggi direttore della prestigiosa biblioteca Capitolare. «Gli immigrati sul territorio sono stati accolti positivamente e, se mai ho sentito fare affermazioni razziste, sono di immigrati verso altri immigrati. Lo stadio? E allora i cori della curva della Lazio, gli striscioni contro Pessotto a Bologna, la Lambretta gettata dagli spalti a San Siro? E poi di che stiamo parlando? Verona ha il più alto tasso di volontariato d’Italia, è una città inclusiva verso gli ultimi e gli esclusi».
In città gli immigrati sono effettivamente ben integrati, come testimoniano i rapporti periodici della Caritas. Non ci sono ghetti: anche il quartiere di Veronetta, il più multietnico della città, è lungi dall’essere una polveriera sociale. Il tema della “sicurezza”, che aveva dominato la campagna elettorale cinque anni fa, conclusa dall’elezione di Flavio Tosi con oltre il 60 per cento dei consensi, è pressoché sparito dall’agenda. D’altra parte il Tosi di oggi, osteggiato dal suo stesso partito per le posizioni non ortodosse (qualcuno direbbe moderate) che lo fanno apparire più vicino al presidente Giorgio Napolitano che ad Umberto Bossi, sembra un lontano parente di quello che venne condannato per propaganda di idee razziste in seguito a una raccolta firme contro un campo nomadi. Anche il vescovo, Giuseppe Zenti, ha detto chiaro e tondo che con la Lega di Tosi “si può dialogare”: frase che, a poche settimane dal voto, è sembrata un chiaro endorsement. «Il vescovo ha avuto l’onestà intellettuale di dire che con l’amministrazione locale ha avuto un rapporto civile», traduce don Fasani. Una “collaborazione” iniziata fin dai primi mesi di governo del sindaco leghista: quando Tosi, come promesso, chiuse il campo rom comunale di Boscomantico, fu il Vescovo a scendere in campo per coordinare il tavolo della ricollocazione delle famiglie nomadi in strutture private.
Un altro provvedimento fortemente simbolico di Tosi, le panchine “anti-barbone” (quelle con il bracciolo in mezzo, per evitare di sdraiarsi), è passato senza troppe alzate di scudi negli ambienti ecclesiastici. Tra le poche voci fuori dal coro quelle di don Roberto Vinco e del suo vice, don Marco Campedelli, parroci della chiesa di San Nicolò, proprio dietro l’Arena. «Le panchine sono un’offesa evangelica a chi non conta nulla», dicono i due, che qualcuno considera “catto-comunisti”, ma «noi ci definiamo “catto-evangelici”». Il loro è un osservatorio privilegiato sulla Verona all’ombra delle vie leccate del centro storico, che mandano in visibilio i turisti. «C’è un aumento esponenziale di gente, soprattutto giovani e immigrati, che finisce sulla strada», dice don Roberto. Certo c’è il volontariato a prendersi cura di loro, nessuno muore di fame. «Ma questo sottofondo ricchissimo di valori non è poi davvero supportato e valorizzato da nessun “polo” della città; né l’Università, né la Chiesa, né la politica, né tanto meno l’informazione – argomenta don Roberto – a me pare sia questa la malattia della città: una frattura tra le istituzioni e la gente. Il volontariato crea l’immagine di una città solidale, coesa, compatta: ma se è così fecondo, perché la politica non lo prende sul serio?».
D’altra parte anche il volontariato, così esteso e diffuso, è parcellizzato in una miriade di sigle e organizzazioni: «Ogni tentativo di coordinarlo – ricorda don Marco – è miseramente fallito». Avvertono una tensione, i preti di San Nicolò, tra una città «in cui tutto appare sotto controllo», sicura, con le sue vie pulite, ordinate, opportunamente ripulite dai venditori ambulanti, e un’inquietudine di fondo, un’insofferenza; ma anche una forte domanda di “religione” che la Chiesa solo raramente riesce a soddisfare. Secondo don Fasani, tuttavia, Verona è lontana dall’essere città “sazia e disperata”, come la Bologna descritta anni fa da monsignor Caffarra: «è una città operosa, con una sostanziale tenuta sociale, grazie al ruolo che ancora ricoprono le famiglie e le piccole imprese. Piuttosto, il difetto è che si fatica a pensare in grande: dalle banche, alla politica, alle aziende».
Dal punto di vista economico, Verona se l’è passata meglio di tanti altri in questi anni di grande crisi, anche rispetto alle province confinanti. Si è perfino parlato di “isola felice”. «Verona è un’oasi nel deserto Italia», conferma Andrea Marani, presidente dell’associazione dei costruttori edili, che ha una curiosa idea su cosa abbia tenuto fino ad oggi Verona al riparo della buriana. «Il fatto è che qui la politica non ha mai funzionato davvero – spiega – Padova e Venezia, tanto per dire, si sono imbarcate in grandi investimenti e oggi si trovano sommerse dai debiti. Da noi invece non si è fatto praticamente nulla, gli ultimi lavori importanti sono stati quelli per Italia ’90, il poco sviluppo che c’è stato è stato grazie all’iniziativa privata». Un bel paradosso, di cui però oggi non c’è molto di cui rallegrarsi; «se tutti intorno a te hanno l’influenza, c’è una buona probabilità che poi te la prenda anche tu».
I primi sintomi ci sono tutti, del resto. Verona, che non è mai stata comunista, ma operaia sicuramente sì, sta assistendo all’eclissi di importanti realtà industriali che ne hanno fatto la storia recente. Alle tipografie della Mondadori nella parte est della città, che nell’82 davano lavoro a 3.500 persone (tra cui il padre di Flavio Tosi), ne lavorano oggi – se si contano i prossimi prepensionamenti – non più di 500. Dopo un’estenuante tira e molla, è stata invece chiusa la Compometal, una delle appendici dell’ormai ex impero delle caldaie del gruppo che fa capo a Paolo Basi, il presidente della potente Fondazione Cariverona (grande azionista di Unicredit).
«C’è una massiccia de-industrializzazione in atto. Ciò nonostante Verona, sui dati che noi abbiamo, si salva. Basta guardare i numeri della cassa integrazione, molto più bassi rispetto a Brescia, tanto per fare un esempio. Non penso sia merito di una classe imprenditoriale particolarmente lungimirante, quanto di settori come l’agroalimentare, quello della trasformazione dei beni, del turismo, che qui sono tradizionalmente più forti e stanno tenendo. Il problema della città è che non ha ancora deciso quale sarà il suo futuro, perché è una città pigra, che fa fatica a muoversi e a innovarsi. E questo, di questi tempi, è preoccupante». A parlare è Massimo Castellani, segretario provinciale della Cisl: per 48 ore è stato lui il “Mario Monti veronese”, ovvero la personalità trasversale cui affidare la guida di una “grande coalizione” da contrapporre a Tosi che, rotta l’alleanza con il Pdl (anche se ne imbarcherà molti esponenti della sua lista), farà corsa solitaria con la Lega Nord; ma lui ha declinato l’offerta. «Se dovessi pensare a una strategia per questa città – riflette Castellani – punterei sulla vivibilità. Verona, che ha l’ambizione di attrarre turismo di qualità, non può essere così inquinata, tanto per cominciare. E poi più attrattive dal punto di vista artistico, culturale. Ci vuole un po’ di respiro, di dinamismo, siamo troppo provinciali».
Se di respiro, a Verona, ce n’è poco, per molti è anche perché mancano voci autorevoli in quella che, con un’espressione un po’ trita, viene chiamata “società civile”: insomma, il mondo della rappresentanza economica e delle professioni. «Una volta sentivo dire che Verona poggiava su quattro pilastri: la Chiesa, la finanza, la Camera di Commercio e la politica – dice Sergio Cucini, proprietario dell’Hotel Firenze, sul centralissimo corso Porta Nuova – ma la Chiesa ha perso potere, la finanza si è spostata tutta a Milano, la Camera di Commercio funziona con logiche spartitorie che nulla hanno a che fare con quelle dell’economia. Rimane la politica».
E la politica, almeno negli ultimi cinque anni, a Verona, è stato quasi esclusivamente Flavio Tosi, capace di costruire un sistema di relazioni che sarà difficile per chiunque smantellare. Suoi uomini di fiducia sono a capo delle principali aziende comunali (come la multiservizi Agsm, presieduta dal segretario locale del Carroccio), ma la sua influenza si estende anche negli enti economici e nelle istituzioni finanziarie (come Fondazione Cariverona e Cattolica Assicurazioni) ben oltre i confini della città. Raramente i rappresentanti delle categorie economiche alzano la voce: lo ha fatto l’anno scorso il presidente della Confindustria Andrea Bolla, elencando nell’aeroporto, nel Consorzio Zai (che governa lo sviluppo dell’interporto) e nella fiera le sue “vertenze aperte” con la politica, ma nessuno pare averlo davvero ascoltato. Quanto a Cucini, che da presidente degli albergatori di Confcommercio si era guadagnato fama di bastian contrario per le sue critiche alle politiche sul turismo dell’amministrazione, non è stato riconfermato: al suo posto, è stato eletto un collega vicino alla Lega.
I sondaggi danno la lista Tosi primo partito della città. Anche per questo, dopo un lungo tira e molla, la Lega si è piegata alla lista col suo nome. Il centrosinistra candida l’ambientalista Michele Bertucco, scelto con primarie invero pochissimo partecipate, mentre il centrodestra orfano del sindaco leghista (Pdl e Udc, con l’aggiunta di Fli) ha puntato sulla rassicurante figura di Luigi Castelletti, attuale vicepresidente vicario di Unicredit, e già presidente della Fiera di Verona. «Sarà battaglia tra gli sfidanti», ha commentato – senza apparente ironia – Flavio Tosi.