CHICAGO – Se una parola distingue Chicago quella è ansia. Ansia da prestazione, ansia di essere, come dicono i chicagoans, la second city, ovvero la città numero due di cui tutti dimenticano troppo spesso e troppo in fretta l’importanza. La realtà è invece che Chicago risulta sempre nelle classifiche delle venti città più influenti del mondo; la realtà è che il premier cinese Hu Jintao in visita ufficiale negli Stati Uniti nel 2011 snobbò New York per attendere un incontro a porte chiuse nella così detta Windy City; la realtà è che Chicago, seppur di adozione, è la città del presidente Obama ed è oggi quella che fu Boston al tempo dei Kennedy – il centro ufficioso del potere politico americano. Per comprendere l’osmosi tra il governo e la Windy City basta guardare allo scambio di uomini e poltrone tra Washington e Chicago: l’attuale sindaco, Rahm Emanuel, fu il capo del personale della Casa Bianca e in città girano voci che fu la stessa moglie di Obama, Michelle, a chiedere al presidente di allontanare Emanuel da Washington: «O me o lui», avrebbe detto ingelosita dallo strettissimo rapporto tra i due vecchi amici. All’attuale primo cittadino di Chicago è succeduto poi il nipote dell’ex sindaco Richard Daley. Non solo: lo stratega politico numero uno di Obama, David Axelrod, è un chicagoan doc. Da Manny’s, storica tavola calda cittadina, è stata addirittura messa una piccola insegna dorata per riservare il posto al baffuto consigliere che quando lascerà la politica, dopo il voto del 6 novembre, prenderà le redini della nuova scuola di politica della Chicago University.
Ma l’influenza della Windy City si estende oltre che in politica, nella mondo della finanza, dell’economia e della cultura. Sono in molti che troppo spesso tendono a dimenticarlo, ma la città di Obama è anche dove ha sede il Chicago Board of Trade (Cbot), quell’edificio smilzo e di un ocra pastello sulla cui cima siede altezzosa una statua di Cerere, la dea dell’agricoltura. Dunque nessuno avrebbe notato la dea senza volto. Oggi però nonostante altre imperiose torri del capitalismo si levino intorno al Cbot, l’edificio della Cerere senza faccia continua ad essere il luogo dove vengono scambiati il maggior numero di futures e contratti derivati su commodities al mondo.
Un’immagine del trading floor del Cibot
La realtà è che è proprio questa la piazza dove viene scambiato quasi l’80 per cento dei prodotti agricoli dell’occidente ed è qui che si decidono i prezzi del grano, del frumento e di migliaia dei suoi derivati. A sentirne pronunciare il nome, il Chicago Board of Trade non dice molto, ma ci vuol poco a scoprire che il Cbot a sua volta è di proprietà del Chicago Mercantile Exchange (Cme), lo stesso conglomerato che controlla il New York Mercantile Exchange (Nyme) e nelle scorse settimane ha fatto un’offerta di acquisto per il London Metal Exchange, confermando così la sua posizione tra i conglomerati più ricchi e influenti d’America.
“Chicago è la più americana di tutte le città”, scriveva Marco d’Eramo ne “Il maiale e il grattacielo”, il suo libro sulla Windy City che anche i chicagoans considerano una delle più attente analisi della storia della loro città. Nessuna descrizione di Chicago potrebbe essere più azzeccata. Costruita in meno di un decennio, tra la fine del 1850 e l’inizio del 1860, la città si trasformò da un piccolo centro dedito al commercio del legname in un conglomerato industriale di quasi mezzo milione di abitanti dove veniva impachettata la metà della carne suina del mondo. Poi nel tentativo di rispondere alla crescita demografica ed economica i boschi intorno alla città furono abbattuti e ancora oggi viaggiando da Chicago verso il sud non si incontrano che le rare chiazze di boscaglia sopravissute all’ecatombe ambientale. Tutta quella legna infatti ha costruito più della metà delle case di Chicago. Ma la città non fece in tempo a godersi la sua nuova opulenza che fu rasa al suolo, nel 1871, dal grande incendio che in pochi giorni appiattì tutto.
Una delle opere più celebri di Frank Lloyd Wright
Fu devastante. Dalla sue ceneri e dalla sua distruzione venne però fuori il vortice creativo della nuova architettura americana. Personaggi come Frank Lloyd Wright, allora un giovane e aspirante architetto, si trasferirono in città richiamati dal desiderio di ricostruirla ex novo. Non esisteva più nulla e dunque, per antitesi, era possibile creare tutto. Ed è proprio da questa volontà di rinascita che nacque il così detto prarie style di cui Wright fu padre fondatore. Secondo i canoni dello stile gli edifici si amalgamo e hanno l’obiettivo di confondersi con la natura, penetrano nelle sue linee e si ispirano alle larghe e vaste praterie del Midwest per creare quella che è poi stata riconosciuta come la prima vera forma di architettura americana – lontana dall’influenza del neoclassicismo europeo. Ma Wright fu solo il primo. Sullivan, Brooks, Fisher sono alcuni degli altri nomi che hanno avuto un ruolo fondamentale nel creare la città come è conosciuta oggi. A Chicago la durezza delle linee ha soppiantato la dolcezza delle curve europee, l’idea di piazza non esiste e la griglia reticolare limita la città con una precisione simmetrica senza scampo. Per un italiano è difficile abituarsi: tutto è ordine e precisione, niente è lasciato al caso, i colori dominanti – il blu, il grigio e il rosso ruggine – sembrano anche scelti appositamente per riflettere la fredda aritmetica cittadina. Non potrebbe però essere altrimenti.
Chicago è sorta sotto l’egida del capitalismo, è sorta al servizio del commercio per essere uno dei principali centri di logistica del paese, un tempo crocevia della rete ferroviaria americana – oggi dei tragitti aerei – in grado di smistare ogni tipo di merce. Prima è arrivato il capitale e soltanto dopo i suoi abitanti. Quella mentalità è poi rimasta intrisa nelle mura della città è non è un caso che dall’Università di Chicago, quello che in città, con complice affetto, viene chiamato il “vaticano del capitalismo”, sia proprio un prodotto di questa terra. Milton Friedman e la sua scuola di pensiero liberista chiamato con orgoglio parrocchiale, “Chicago Boys”, insegnò proprio qui. Ancora oggi la sua influenza riverbera; tanto che, nel mondo dell’accademia, gli economisti sono divisi tra i salt water, quelli delle due coste e solitamente più propensi alle teorie neo-keynesiane e quelli della fresh water, il nome eufemistico che viene dato agli economisti neoliberisti e un riferimento al gigantesco lago Michigan che imperioso si staglia davanti a Chicago. Ansia dunque, ansia di essere riconosciuti per la propria importanza in un paese dove ogni città ha una sua caratteristica che la distingue e la rende nota al resto del mondo. Los Angeles ha il cinema, San Francisco la Silicon Valley, New York la finanza, Boston le università e Washington la politica. Chicago? Un melange di tutti questi elementi senza nessuno che risulti significativamente più prominente dell’altro. In un paese che celebra spesso l’eccesso non è vita facile.