“Altro che Monti, la Padania c’è e vincerà”

“Altro che Monti, la Padania c’è e vincerà”

La Lega è nella bufera, ma conta poco: la sua istanza fondativa, cioè la questione settentrionale, resta vivo. Almeno, è quello che sostiene Stefano Bruno Galli, politologo leghista, intellettuale del Carroccio, docente di Storia della società e delle istituzioni all’Università Statale di Milano. Ma, a parte la tempesta ai vertici del partito di questi giorni, da tempo è scomparso dalla scena politica un protagonista della scorsa stagione. Era la parola d’ordine del governo Berlusconi, la bandiera del movimento e il toccasana dei conti del Paese. Ma ora, che fine ha fatto il federalismo? Il progetto leghista è rimasto bloccato a metà dall’interruzione del governo Berlusconi. E sembra che il nuovo governo non abbia alcuna intenzione di riportarlo in vita.

Come mai il federalismo è scomparso dall’agenda politica?
Perché costa troppo. Comunque, il progetto non è stato abbandonato. Al momento, è congelato. Ma il motivo è chiaro. Il governo Monti che – diciamolo – è il frutto di uno strappo costituzionale, è stato chiamato per tenere sotto controllo i conti pubblici. E la legge 42/2009, cioè l’attuazione del federalismo fiscale, costa troppo. Non a pieno regime, sia chiaro, ma nella sua attuazione. Il nodo è nei grandi costi della sanità, che arriva a toccare l’80% delle spese delle regioni. L’obiettivo era riequilibrare le spese ed eliminare le grosse disparità nel Paese. Quindi, un problema di costi. Ma, in ogni caso, un paese civile potrebbe comunque adottare dei costi standard per le regioni e passare a un diverso sistema per stabilire il sistema di trasferimenti alle regioni. E abbandonare il criterio della spesa storica.

Ma la sparizione non rivela anche un’opposizione ideologica al progetto?
No, e perché mai? Tra i ministri del governo figura anche Giarda: molto competente di federalismo, studioso di spessore. Il punto è che Monti ha scelto un approccio centralista, con una tesoreria unica e il blocco del patto di stabilità. Ha guardato i conti in modo, diciamo, “distratto”, cioè alle spese in essere, ma, anche se il centralismo è duro a morire, il problema della fiscalità delle regioni rimane. In questo modo, le ricadute sono finite sulle categorie produttive: un male, perché innescano un meccanismo disgregativo nella società.

Ma dopo Monti ci sarà ancora un partito che parlerà di federalismo?
Sì. La proposta è nata in un’ epoca storica, in alcune regioni italiane, e non senza motivo. Da un lato, al Nord si era imposto un sistematico drenaggio di risorse fin dagli anni ’80. E allora, il saccheggio fiscale ha alimentato tendenze all’anti-politica e all’anti-stato.

Che significa?
Semplice: l’imprenditore, la classe produttiva, aveva sempre delegato ad altri la politica. Solo quando la politica comincia a danneggiarlo, comincia a occuparsene in prima persona. E allora non vota più per la Dc, ma per la Lega. Lo stato appare come un predone. Ma l’unico partito a mettere al centro la proposta è stato solo il Carroccio. Forza Italia si rivolgeva allo stesso target, erodendo il consenso della Lega. Per questo Bossi aveva deciso per l’affratellamento: contenere la fuga di voti e portare in alto la questione settentrionale.

Sì, ma ora? Che fine farà il federalismo?
Il problema c’è ancora. Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna rappresentano quasi il 70% del Pil del Paese. Da sole, alimentano tutta l’Italia. Ma nessuno le difende: nel 2011, le piccole imprese hanno perso 50 miliardi di euro di fatturato. Chi può tutelarle? Solo la Lega Nord. Per questo dico che lo spazio politico c’è ancora. Del resto, Bossi si è dimesso dicendo una cosa importante: «Lo faccio per il movimento, per i militanti».

Sì, ma se il problema c’è ancora, vuol dire che la Lega non è riuscita a risolverlo. La base non è delusa?
Lo era. Era delusa fino a qualche tempo fa. Fino a quando la Lega ha provato a provato a promuovere le riforme dall’interno del sistema, cioè attraverso la politica nazionale.

È quello che ha fatto.
Sì, ma l’autoriforma delle istituzioni funziona per le piccole politiche, non per le grandi. Altrimenti, si finisce alla ghigliottina, come è successo a Luigi XVI, che aveva convocato gli Stati Generali per riformare da dentro il sistema. Ora, la Lega ha preso atto di questo: per quella via non si può.

E allora?
E allora da tempo c’è in atto un ritorno alle radici. No a Monti, no a Silvio Berlusconi, sì al territorio. Ora cerca un nuovo metodo per promuovere il cambiamento del Paese: fare pressione, forte di un consenso ampio e solido. Per carità, sia chiaro, non parlo di pistole o fucili: è altro.

Lobbismo?
Sì, un lobbismo che passa attraverso le classi produttive. È inutile girarci intorno. Lo si vede anche dalle vicende di malfunzionamento dello Stato, che le dinamiche della politica prescindono dal bene comune. E allora i partiti sono solo espressioni di interessi contrapposti, in conflitto tra loro, di ogni tipo.

E la Lega chi esprimerebbe?
Tante realtà. I piccoli imprenditori in crisi, per esempio. La dimensione economico-produttiva ha una grande importanza. Ma non solo: anche tutti quelli che vogliono meno burocrazia, più facilità e più trasparenza. Tutti quelli che promuovono le virtù civiche. E anche i pensionati, che la Lega ha difeso anche a rischio di far cadere il governo Berlusconi. Ecco, queste realtà, e i piccoli imprenditori colpiti dalla crisi in particolare, hanno una collocazione territoriale precisa.

Il Nord, immagino.
Sì. La Padania.

Padania?
Sì. La Padania, secondo me, esiste davvero. Una vera nazione. Ho fatto infuriare molte persone dicendo questo, ma non sbaglio.

Ma in che senso?
Vede, l’idea di Padania ha una fisionomia economico-produttiva. Ma non è strano. Secondo le prime teorie sul concetto di nazione, diffuse nel ‘700, la prima formulazione è proprio di carattere economico-produttivo. Molto prima di tutte quelle idee romantiche di popolo e di appartenenza. Quindi, punto primo, la Padania ha una legittimità teorica, che è la sua produttività.

Punto secondo?
L’identità padana c’è. Si basa sulla consapevolezza di appartenere a una delle aree più produttive d’Europa. E si basa sul sentimento di schiavitù fiscale. Non è un caso: è una costante storica. I padani si sono ribellati, con il Barbarossa, perché volevano autonomia fiscale. Ma sotto gli austriaci, il Nord era il serbatoio per le casse dell’impero. Poi è arrivata Roma. Insomma, non è una novità. L’unica vera anomalia è che, nonostante sia il centro produttivo del Paese, non ha mai avuto una capitale politica. Le nazioni sono una costruzione immaginaria e, visto che i pilastri che le sostengono ci sono già, dietro, ci si può mettere quello che si vuole. E parlo delle ampolle, dell’acqua del Po, delle origini celtiche. Quell’insieme di miti e di riti che si assomma a quella rete di relazioni, di convinzioni, alla mentalità collettiva fatta di spirito calvinista e di dedizione al lavoro che definisce il padano. E forma la Padania.

Ma, ammesso tutto questo, e considerate le istanze della Padania, chi guiderà la Lega? Roberto Maroni?
Sì. Ha molti pregi. Maroni è uno dei fondatori, prima di tutto. Poi, con il tempo, si è guadagnato quell’aplomb istituzionale necessario, e l’apprezzamento di tutte le parti politiche. Ma a Bergamo si è visto che la sua strada alla leadership non è così in discesa. C’è bisogno di fare pulizia: anche se Bossi ha dettato la linea. La Lega è rimasta invischiata in reati italiani, ma ha avuto una reazione padana. Quale leader si dimetterebbe come ha fatto Bossi?

Ma Maroni non ha ancora il carisma di Bossi.
No. La Lega è stato un parito molto verticista. Lo aveva suggerito, all’epoca, anche Miglio: Bossi doveva imporsi con il suo carisma politico, l’unico strumento che poteva far stare insieme istanze sociali differenti. La Liga veneta, ad esempio, e quella lombarda, sono state unite solo dall’autorevolezza di Bossi.

E ora non c’è il rischio che si disgreghino?
Dal 2004 le cose sono cambiate. Si crea una forma di gestione del potere diversa, che tiene lontano il capo dalle decisione e da carismatica diventa verticistica. Proprio questa viene messa in discussione in questi giorni. Non sarà facile, ma Maroni gode del consenso della base. 

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