PECHINO – «Chi sperava in in un Myanmar democratico, libero e prospero può essere contento. Apparentemente la leader dell’apposizione Aung San Suu Kyi siederà in parlamento, anche se i risultati delle elezioni di domenica scorsa saranno ufficializzati solo tra qualche giorno. La Lega nazionale per la democrazia reclama la vittoria di tutti e 44 seggi in palio». Così comincia l’articolo sulle elezioni di domenica in Birmania del South China Morning Post, uno dei quotidiani indipendenti di Hong Kong e uno dei pochi giornali cinesi a riportare un’analisi dell’esito del voto. Gli altri quotidiani riportano a malapena il comunicato dell’agenzia di stampa governativa Xinhua, ovvero quello annunciato dalla radiotelevisione birmana: 40 seggi alla Lega nazionale per la democrazia.
Un paese conteso, in cui anche il modo in cui lo si chiama è espressione di una presa di posizione politica. Nel 1989, infatti, la giunta militare ha cambiato il nome ufficiale al paese sostituendo Myanmar a Birmania, più legato al contesto coloniale. Ma sin da allora molte minoranze etniche, movimenti di opposizione e paesi occidentali si sono rifiutati di accettarlo, proprio perché non riconoscevano la legittimità del governo militare. L’Onu, l’Asean, la Germania, la Cina, l’India e Giappone comunque hanno accettato la versione governativa.
Le elezioni suppletive, raramente sono state così importanti. È solo la terza volta che il popolo birmano ha accesso al voto dal 1962, quando i militari hanno preso il potere, ed è la prima opportunità che i cittadini hanno avuto di votare per la Lega per la democrazia e la sua Signora – il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi – dopo che avevano vinto le elezioni del ’90. La stampa cinese che riporta la notizia, evidenzia soprattutto che, anche se la Lnd si aggiudica ogni singolo seggio in palio, i militari e i partiti che li appoggiano continueranno a detenere l’80% dei seggi in parlamento. Non bisogna quindi temere il cambiamento: la Lnd avrà ben poca influenza sulle leggi e sulla politica del paese. Ed è quello che interessa a Pechino.
La Birmania è di grande importanza strategica, storicamente lo è sempre stata. Il perché lo si capisce anche solo osservando una cartina geografica: confina con il Bangladesh, l’India, la Cina, il Laos e la Thailandia. Si affaccia per circa 2500 km sul golfo del Bengala e ospita una varietà geografica che va dai 6mila metri di altitudine dell’Himalaya alle piane alluvionali dell’Irrawaddy e del Sittang passando per le colline coperte da foreste di teak.
Da quando nel 1947 la Birmania ha riguadagnato la sua indipendenza dall’Impero Britannico, non è mai stato un paese tranquillo. L’assassinio di Aung San, padre di Suu Kyi e leader del movimento indipendentista dell’epoca, destabilizzò il paese e aprì la strada alla presa di potere della giunta militare. Da allora in poi Myanmar si chiuse in se stessa per gestire i problemi interni e il risultato fu un’economia stagnante negli anni in cui il resto dell’Asia esplodeva. Il mondo reagì di conseguenza e la isolò economicamente e diplomaticamente.
Solo la Cina ha saputo approfittare dell’isolamento della Birmania dalla comunità internazionale. Negli ultimi vent’anni si è assicurata i suoi interessi strategici costruendo autostrade, ferrovie, porti e gasdotti. E la comunità cinese in Birmania è numerosa e ricca. I tayoke, come li chiamano, sono presenti nella regione sin dal XVIII secolo. Ma le migrazioni più imponenti sono avvenute solo negli ultimi cent’anni. Incoraggiate dai britannici prima, e successivamente come effetto della guerra civile cinese che ha visto opporsi il Guomindang al Partito comunista. Oggi ci sono almeno un milione e seicentomila cinesi che hanno ottenuto la cittadinanza birmana e oltre due milioni di immigrati. La crescita continua di affari tra Myanmar e la Repubblica popolare è stata l’occasione che ha permesso ai tayoke di arricchirsi. E i beneficiari di questo rapporto hanno fatto il possibile per mantenere buoni rapporti sia con la giunta militare sia con la Cina. Ma sopratutto preferiscono fare affari al fare politica.
Poco prima delle elezioni si era sparsa la voce di un disegno politico per istigare la comunità cinese contro la Lnd. La stessa Suu Kyi si era sentita in dovere di affrontare in campagna politica la questione. «Ho sentito che uomini d’affari e mercanti cinesi sono stati minacciati. Gli è stato detto che, poiché abbiamo strette relazioni con i paesi occidentali, i loro affari sarebbero stati danneggiati se la nostra Lnd avrebbe vinto». Ma non è vero, ha rassicurato. E ha fatto tradurre i suoi slogan elettorali anche in cinese.
I rapporti con i cinesi sono infatti delicati. L’unico caso in cui il Myanmar si è opposto alla volontà della Repubblica popolare è stato quello della diga di Myitsone, un’opera colossale vicino alla foce del fiume Irrawaddy, in grado di fornire da subito una considerevole quantità di energia alla vicina provincia cinese dello Yunnan in cambio dei soldi di Pechino. Lo scorso autunno la società civile insorse portando migliaia di manifestanti nella capitale, Aung San Suu Kyi gli fece da megafono e alla fine il presidente Thein Sein, ne ordinò l’immediata sospensione dei lavori, con buona pace dei cinesi.
Ma non è solo il commercio il motivo per cui la Cina sta investendo così pesantemente in Birmania. Si tratta anche di supremazia regionale. Negli ultimi vent’anni anche la democratica India ha messo da parte gli scrupoli umanitari a favore della realpolitik e ha cominciato a espandere gli investimenti e le attività culturali nella regione. La Cina sa perfettamente che i legami culturali, sociali, economici e – talvolta – militari dell’India con la Birmania vantano di una tradizione ben più antica. A volte la competizione tra i due paesi in campo birmano è diretta. Come nel caso delle riserve di gas della regione di Shwe, sulla costa. Lì stanno per essere costruiti due gasdotti: uno verso la Cina dal porto di Kyauk Phru e uno verso l’India dal porto di Sittwe.
Il great game è complicato. Mentre la Cina cerca di rafforzare i legami strategici con la giunta militare, gli interessi indiani sono oggi rianimati dalle istanze democratiche che la Birmania porta avanti nel nome del partito del premio Nobel per la pace (che per altro ha studiato a Nuova Delhi). Ma la partita è ancora aperta perché, come sottolinea la stampa cinese, la giunta militare ha ancora l’80 per cento dei seggi in parlamento. E la vittoria della Signora sotto gli occhi di attenti osservatori era l’unica carta per chiedere alla comunità internazionale di revocare le sanzioni. E i leader dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) riuniti in Cambogia, l’hanno prontamente giocata.