ROMA – La cerimonia di affidamento dell’orto sembra un’investitura nell’iconografia medioevale, solo che al posto della spada c’è il rastrello. È festa grande agli Orti Urbani Garbatella, nel popolare quartiere romano: dieci nuovi «inquilini» entrano nella comunità, zapperanno, semineranno e raccoglieranno i frutti del loro lavoro.
Fra i nuovi assegnatari ci sono una decina di persone, che si erano messe in lista già da tempo e collaboravano al funzionamento del campo, un’associazione di genitori di ragazzi portatori di handicap, Hagape 2000 Onlus, e un’altra associazione che si occupa di rifugiati, Asinitas, con corsi di italiano e attività sociali. «Ma che bei giovanotti!», dice qualche signora. I due ragazzi afghani di turno proprio oggi hanno già rivoltato tutto il proprio campo, mentre gli altri contadini stanno ancora cercando di capire da che parte si tiene la zappa: «È che da noi tutti hanno il proprio orto per sopravvivere – ci spiega Hamid, 20 anni, che è arrivato in Italia facendosela praticamente tutta a piedi, in due anni, passando attraverso l’Iran e la Turchia – sono contento di poter lavorare la terra anche qui». Le operatrici ci spiegano che l’obiettivo è quello della socializzazione, innanzitutto, poiché generalmente, fra corsi e comunità protette, le occasioni per i rifugiati di mescolarsi ai romani sono relativamente poche. Stesso discorso per l’associazione dei genitori: Francesca racconta che i laboratori di pittura, gli incontri nelle scuole e questa novità dell’orto servono proprio ad abbattere quelle barriere psicologiche che allontanano chi ha qualche problema fisico, neurologico o psichico. «E poi prendersi cura dell’orto, veder spuntare le piantine, poter fare una bella cena sociale con i prodotti della propria fatica ha un effetto terapeutico inimmaginabile. Stiamo già pensando a un concorso fra i ragazzi per la realizzazione dello spaventapasseri».
Gli Orti Urbani Garbatella sono la prima grande realtà che si è presentata alle istituzioni nel suo genere. A Roma («il più grande comune agricolo d’Europa, con oltre 51mila ettari di superficie agricola, pari al 40% del territorio», come recita il sito del Comune) gli orti «spontanei» sono una tradizione millenaria, ripresa durante la guerra, quando «per mangiare si coltivava anche dentro alla vasca da bagno», e che ora sta tornando alla ribalta, complice probabilmente la crisi, vuoi perché permette di non dover acquistare tanta verdura, vuoi perché con tanta disoccupazione molte persone hanno più tempo libero.
La festa nell’orto prosegue. Ci sono una cinquantina di persone e i pensionati sono solo una minoranza: giovani disoccupati o con lavori precari e saltuari, cassa-integrati, pensionati, ex carcerati, famiglie con bambini. Carmelo tiene un corso di permacultura («Non “coltura”, si tratta proprio di una visione del mondo olistica»), Luigi è attivissimo, oltre che negli orti, nelle campagne per la riduzione dei rifiuti urbani, giovani coppie coi bambini che si rotolano nelle carriole e scoppiano a piangere quando è ora di andare via. «Vengo dalla Puglia, e abitavamo in un altro quartiere – racconta Anna – e quando ci siamo trasferiti qui non avevo più voglia di ricominciare tutto da capo, ma l’orto è stata un’occasione incredibile per conoscere le persone, condividere. Mio marito è rinato». Intanto sul tavolo iniziano a comparire manicaretti e bottiglie di vino portati da ognuno, e il pranzo sociale finisce cantando, mentre qualche ‘eroe’ riprende a zappare sotto il sole a picco.
Che coltivare l’orto sia un ottimo modo per creare socialità, stabilire reti di relazioni fra i cittadini, che si prendono cura direttamente dei loro spazi comuni tenendoli vivi e puliti, non è un’impressione solo degli “ortisti”: l’esperienza degli Orti Urbani Garbatella è stata presentata lo scorso 15 marzo nell’ultimo Rapporto sulla Sussidiarietà, redatto dall’omonima Fondazione, e presentato alla Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini, alla presenza del presidente del Senato Renato Schifani, del ministro dell’Ambiente Corrado Clini, del sindaco di Roma Gianni Alemanno e di altre personalità che hanno tessuto le lodi delle iniziative “dal basso”. «Sarà – commenta Anna Maria Baiocco, del Circolo Legambiente Garbatella, anima combattiva dell’iniziativa – ma stiamo ancora aspettando la ratifica del contratto di affidamento per un anno, finirà che ci piazzeremo nell’ufficio dell’assessore competente finché non firma».
La storia del parco di via Rosa Raimondi Garibaldi, dove si trovano gli orti della Garbatella, va avanti da 18 anni, da quando cioè si formò il comitato di quartiere che osteggiava il proposito dell’Amministrazione comunale di destinare l’area (45mila metri quadrati a lato della via Cristoforo Colombo) a un centro congressuale con strutture ricettive. 12mila firme convinsero il Comune a cambiare idea, nel 1996. «Ma il rischio di speculazione edilizia era sempre lì, visto che le varie amministrazioni non si muovevano ad approvare e finanziare il progetto di parco – prosegue la Baiocco – e l’unico modo per scongiurare il rischio di costruzione era piantare alberi: abbiamo iniziato da un lato, poi l’area bimbi, la bonifica progressiva, con l’aiuto dei cittadini fra “Puliamo il mondo” e “Feste dell’albero”, oltre a importanti donazioni di terra e di alberi: una delle ultime è stata quella del Maxxi, Museo nazionale delle arti del ventunesimo secolo di Roma, che ci ha regalato la terra al termine dell’installazione-giardino Whatami». Finora la parte trasformata in parco è di circa 15mila metri quadrati, mentre quella dedicata specificamente agli orti è di 2mila, e comprende anche due orti didattici per le scuole. «La Regione Lazio – la cui sede si affaccia sull’area – aveva stanziato un milione di euro per la realizzazione del parco, ma poi li ha ritirati. Nell’autunno 2009, su sollecitazione di Casetta Rossa – spazio che raggruppa diverse associazioni molto attive nel quartiere – abbiamo partecipato a un bando della Provincia per la realizzazione degli orti, quasi per scherzo, e ora eccoci qua, la prima e più importante esperienza del genere sul territorio cittadino romano».
Subito dopo l’avvio degli Orti Urbani Garbatella, i lavoratori dell’Agile ex Eutelia, 1.800 persone (260 solo a Roma) rimaste senza stipendio da un giorno all’altro per una presunta bancarotta fraudolenta (il processo è in corso), presidiavano Montecitorio e facevano scioperi della fame per attirare l’opinione pubblica sulla loro situazione. «Facemmo un incontro – racconta Gianluca Peciola, consigliere provinciale di Sinistra Ecologia e Libertà – e in pochissimo tempo ottenemmo che l’Istituto Agrario di via Ardeatina mettesse a disposizione 3mila metri quadrati per creare Eutorto, l’orto di Eutelia. In realtà l’aiuto economico è stato abbastanza ridotto, con la realizzazione delle recinzioni e la fornitura degli attrezzi».
«È un progetto di mediazione del disagio – racconta Gloria, passata dagli uffici dell’Eutelia agli orti – invece di sbattere la testa contro un muro vieni qui, all’orto, e ti accorgi che lavorando la terra non pensi più a nulla, e c’è sempre da fare: a quelli che dicono che si annoiano vorrei dire “ma zappate!”. E qui, altro che biologico, è tutto zappato a mano. Arrivi a sera che sei stanco, col mal di schiena, ma la terra ti insegna a guardare le cose da un’altra prospettiva. È anche un modo per continuare insieme la lotta, 18 di noi hanno aderito al progetto. Lo vedi quel signore là in fondo con la camicia a scacchi? Era il mio capo. Ehi! Ricordati che domattina siamo da Landini!».
Enrico, più esperto perché l’orto lo faceva già in Abruzzo nel 1996, dividendo la propria vita fra informatica e terra, sta tagliando con il potatore il favino che serve per la coltura “a sovescio”, ovvero: si pianta a novembre, si taglia a marzo e si rivolta nella terra, rilasciando tutti i principi nutritivi necessari a una buona coltivazione. Arriva tutto ricoperto di schizzi d’erba, pure sugli occhiali: «Così non c’è bisogno di concimare. L’esperienza degli orti, oltre a tenerci uniti, serve anche a diffondere la cultura del chilometro zero e della filiera corta: già chi viene da Maccarese ci mette benzina, trasporti, almeno un grado di passaggio nella distribuzione. Chi viene qui passa magari facendo jogging, è del quartiere, vede crescere le coltivazioni, si affeziona. Qui sono venuti un sacco di studenti per fare la tesi sul nostro orto, da architettura, ingegneria, geografia, e chissà che tutti questi studi portino a uno sviluppo positivo».
Orti vicino alla sede della regione Lazio
Poco distante, sempre all’interno del terreno dell’Istituto Agrario Tenuta Sant’Alessio, circa 100 ettari nel cuore di Roma, c’è l’orto dell’associazione Nessun Dorma, un gruppo di ragazzi fra i 22 e i 30 anni che ha trovato nell’agricoltura («ma siamo nati per fare iniziative culturali e concerti rock», spiega Andrea) il modo per ricontattare amici e coetanei del quartiere Roma 70. «Qui ci sono gli oratori per i bambini e i centri anziani, ma se hai superato l’età ’del muretto’ non hai più spazi e modi di aggregazione», racconta Andrea. «Abbiamo quindi fatto un GAS, un gruppo di acquisto solidale, “Ortaggi vostri”, e ora l’orto con i corsi di agricoltura biologica e biodinamica, appoggiandoci alla cooperativa Garibaldi, di genitori di ragazzi autistici che frequentano l’Istituto Agrario, e vincendo il Bando delle Idee proposto dall’XI Municipio». Al GAS aderiscono circa una quarantina di persone, ma con questo sistema sono ormai in contatto con tutti i giovani del quartiere, anche quelli persi di vista negli anni.
Al corso di agricoltura biodinamica Renato spiega praticamente, ad esempio, come piantare gli alberi da frutto, e si discute del senso del “biologico”, mentre uno dei primi tramonti primaverili imbiondisce la collina ad ulivi. Non diresti mai di essere in città. Andrea Catarci, presidente del XI Municipio, si infervora sull’argomento: «Roma ha da sempre una vocazione agricola, e sembra esserselo dimenticato. Il nostro territorio, poi, ha uno dei due istituti agrari della città, in cui ci sono scuole, convitti, fattorie, farmer’s market, maneggi, è un bel microcosmo che abbiamo dovuto difendere dagli appetiti edilizi, perché volevano farci impianti sportivi d’élite».
In questi giorni nel parco dell’Appia Antica è stato inaugurato l’Hortus Urbis, con coltivazioni dell’antica Roma, curato dai volontari della rete degli orti, studiato dalle università e rivolto alla didattica per le scuole. Si è iniziato con le “bombe di semi” (polpette di argilla mescolata con sementi) lanciate nei prati dai bambini, i disegni dell’ “orto che verrà” e si continua con la coltivazione collettiva e le attività per bambini gni settimana. A proposito di scuole, ci sono istituti in cui l’orto è metodologia didattica, «alla scuola d’infanzia I Monelli, insieme a Slow Food abbiamo fatto dei bellissimi laboratori sull’olio, “Orto in condotta”» ricorda Catarci, che sottolinea come gli orti siano un formidabile strumento di creazione di reti sociali, occasione di reinserimento lavorativo, a esempio per ex detenuti, o di sostegno psicologico e di reddito per chi è stato espulso dal ciclo produttivo, come i lavoratori di Eutelia.
«E poi – continua Catarci – dove ci sono gli orti, affidati ma anche abusivi, c’è pulizia, cura del territorio, maggiore sicurezza. L’ultima volta che abbiamo chiamato l’Ama (l’azienda che gestisce i rifiuti, ndr) abbiamo speso 64mila euro. Sicuramente sui campi coltivati non fanno le discariche. Per questo, a parte sostenere le varie iniziative sul nostro territorio, abbiamo più volte interpellato il Comune, senza alcuna risposta, proponendo di fare un bando per l’affidamento di tutti quei terreni incolti che comunque l’amministrazione non sarebbe in grado di gestire: sarebbe un risparmio per il Comune, la normalizzazione di un fenomeno comunque in atto, il riconoscimento dell’importanza di questa realtà, e anche un fattore di sicurezza per la città. Dubito che ci rispondano entro la fine di questa amministrazione, anche se ci speravamo, visto che il nuovo assessore, Visconti, sembra più aperto, ma siamo pur sempre di un colore opposto. Nel futuro, con le prossime elezioni, si vedrà».
Il fenomeno pare avere un’enorme diffusione su tutto il territorio della Capitale: «Sono circa un centinaio gli spazi verdi condivisi che abbiamo censito a Roma, fra giardini e orti, ad opera di cittadini e associazioni che in prima persona ne curano la realizzazione e la gestione contro il degrado delle aree verdi urbane a Roma», racconta Luca D’Eusebio, di Zappata Romana, che coordina buona parte degli orti cittadini. «In realtà noi siamo uno studio di architettura che si è trovato ad analizzare uno di questi spazi in periferia, e poi ci siamo appassionati al tema. Dal punto di vista del riconoscimento istituzionale siamo molto indietro, se pensa che Michelle Obama fa riunioni con i 7mila “ortisti” delle città americane, lì con la crisi è emerso proprio il fenomeno, gente che si coltiva i pomodori sui tetti dei palazzi. Siamo indietro anche rispetto a buona parte d’Europa, in Francia la prima legge sugli orti “familiari” è del 1901, e a Parigi “les jardins partagés” sono un’istituzione diffusissima, il Comune ti dà tutte le attrezzature con l’impegno di aprire al pubblico due volte a settimana e organizzare un evento almeno una volta all’anno».
Negli ultimi anni in Italia e nel mondo si è diffuso un ritorno alla terra e alla cura del proprio territorio sotto diverse forme: si va dagli orti, singoli o in associazione, anche a fini terapeutici (come all’Istituto psichiatrico Paolo Pini di Milano, dove gli orti sono curati dai pazienti), alle fattorie didattiche per bambini, alla cura del verde e dei giardini ornamentali, i community gardens, che si stanno diffondendo soprattutto nel nord Italia, fino al fenomeno del guerrilla gardening, nato negli anni ’70, in cui gruppi più o meno organizzati (come i «Friarielli ribelli» di Napoli) compiono vere e proprie incursioni per piantumare e risistemare, spesso di notte, gli spazi comuni abbandonati. Negli Stati Uniti l’ultima moda è quella dell’orto aziendale: Toyota, Pepsi e Yahoo ne hanno uno, i dipendenti ci vanno a passare la pausa pranzo. Pare che l’ortoterapia appiani le differenze gerarchiche, funzioni da antistress e migliori la produttività sul lavoro.
«Bologna è la città con più orti per anziani, ce ne sono 2.700 – spiega Mariella Bussola, di Orto Diffuso di Milano, il corrispettivo di Zappata Romana, che sta personalmente curando una pubblicazione sugli orti in Italia – ma anche Genova, Torino e Firenze sono molto attive. A Milano ci sono 400 orti comunali affidati a pensionati, mentre quelli condivisi a volte sono abusivi, come a Precotto, dove il Consiglio di Zona è andato a ringraziare gli occupanti, fornire loro materiale e proporre al Comune una bozza d’accordo per l’affidamento. Certo, non esiste nessuna norma specifica in nessuna città, tutto ciò che nasce dai cittadini è mal tollerato dalle amministrazioni». Sarà anche per una certa resistenza normativa, ma Zappata Romana e Orto Diffuso di Milano, che si sono ritrovati ad ottobre scorso in occasione della progettazione di uno spazio verde alla Bolognina, hanno deciso di creare un coordinamento nazionale, vista l’estrema volatilità e frammentarietà dei dati riguardo a questo fenomeno.
Oltre alle realtà condivise il Comune di Roma censì nel 2006 circa 2.300 orti, suddivisi in 67 siti «Ma tenga conto che si tratta di una realtà molto dinamica, in questi sei anni potrebbero essere cambiate molte cose, alcuni abbandonati, ma credo anche molti creati ex novo», racconta Massimo Rustici, che questo censimento lo ha fatto sul campo. «È stato un lavoro enorme e che potrebbe servire da base di partenza per una reale collaborazione fra cittadini e istituzioni locali – commenta Paola Marzi, del Dipartimento Tutela Ambientale e del Verde, che si occupa degli orti urbani e delle fattorie educative per l’Amministrazione capitolina – peccato non sia mai stato messo on line».
«Quel che è emerso dal censimento è che i romani fanno orti ovunque», racconta Rustici «solo nel I Municipio non ne abbiamo trovati, ma probabilmente se si potesse tirerebbero su pomodori pure nel Colosseo. Bidelli che si fanno l’orto nelle scuole, ma anche gruppi di cittadini che si prendono carico di zone verdi abbandonate, le ripuliscono, le rendono vive». «Uno degli esempi più belli era quello sotto il nosocomio di Santa Maria della Pietà – aggiunge Marzi – lì avevano fatto dei veri e propri terrazzamenti in stile orientale, con un certo estro, una parte era coltivata dagli infermieri, una parte era curata anche dai pazienti come forma di terapia, era una meraviglia. Poi hanno chiuso il nosocomio. In realtà qualunque parte marginale della città viene sfruttata, gli argini dell’Aniene, le scarpate delle ferrovie, i terreni abbandonati».
In questo Roma assomiglia a Barcellona. Elenora Blanco ha curato un bel libro fotografico sugli orti della città catalana, “La ciudad jubilada”: «Anche lì nulla è regolato, gli orti vengono realizzati lungo i fiumi e in qualunque interstizio lasciato libero dalla città, generalmente sono curati da pensionati, che autoproducono un po’ di cibo senza anticrittogamici e passano la giornata in modo molto più sano e divertente che in osteria». Tutti concordano sul modo stupefacente che hanno gli ortisti di trovare soluzioni pratiche e originali, riutilizzando in modo creativo materiali di scarto per fare ingressi (con le reti dei letti), cancellate, panche e serbatoi per l’acqua.
«Per un orto è fondamentale l’acqua – spiega il tecnico del Comune – quindi o stai vicino a un fiume, o trovi un allacciamento, o ti industri per raccogliere l’acqua piovana o portarne dalle fontanelle. L’altro aspetto notevole è che abbiamo trovato una biodiversità rara e pregevole, capita che gente che arriva da ogni parte d’Italia e del mondo si ricrei qui il suo habitat, e abbiamo scoperto alberi di limone di Sorrento, peperoncini calabresi, varietà che non si trovano nei mercati. Poi ogni appezzamento diventa un potente centro di aggregazione, rete di divulgazione dei temi propri dell’agricoltura, ma anche dell’ecologia, della vita di quartiere. Hanno una ricaduta amplissima, il cittadino “sta” sul territorio, lo vive, lo migliora».
«Certo che la crisi ha esasperato un fenomeno che è sempre esistito dagli orti di guerra dei nostri genitori», aggiunge la responsabile dell’Ufficio Orti urbani. «Ora la gente ha mediamente più tempo libero, perché c’è più disoccupazione, e meno soldi. Nello stesso tempo vuole anche magiare bene, e le dico che non ci vuole niente a mettere su una pecetta con scritto “biologico”, se nessuno fa i controlli. Almeno la verdura te la coltivi da solo e sai cosa c’è dentro».
All’ingresso del palazzo comunale dove si trova l’Ufficio Orti Urbani c’è ancora una locandina che invita la cittadinanza a partecipare all’inaugurazione degli orti urbani del Parco della Consolata il 22 luglio 2010. «È l’unico, ad oggi, realizzato dall’Amministrazione, 20mila metri quadrati per 22 appezzamenti, su spinta dell’associazione Fosso Bravetta che coltivava lì da anni – spiega Marzi – Ora abbiamo in ballo altri tre progetti, alla Giustiniana, dove attendiamo il placet del Parco di Veio, alla Tenuta del Cavaliere e a Castel di Guido, dove manca l’ok della Riserva del Litorale. La verità è che è dieci anni che abbiamo preparato una bozza di regolamento per gli orti urbani. I cittadini ce li chiedono, non possono essere che positivi per molti aspetti, sarebbe manutenzione a costo zero per l’amministrazione, e allora che aspettiamo? Forse siamo giunti quasi alla fine del percorso, sembra finalmente che ci sia la volontà politica di mettere la pratica in cima alle altre. La ratio del regolamento sarebbe quella di affidare gli appezzamenti a cittadini associati, dando degli standard di servizi e vivibilità da attuare. In questo modo si sanerebbero tante situazioni esistenti, esigendo anche un minimo di pulizia e decoro, perché alcune soluzioni attuali non dico che non siano folkloristiche, però…».
Ritorniamo all’Eutorto, che almeno non ha problemi di abusivismo, visto che ben tre istituzioni lo appoggiano (XI Municipio, Provincia di Roma e Istituto Agrario). Appurato l’indiscusso valore sociale, il risparmio e i vantaggi per la pubblica amministrazione e per la cittadinanza su cui sembrano tutti convenire, senza però riuscire a deliberare alcuna norma in merito, rimane il dubbio se poi tutto ciò sia effettivamente remunerativo per chi ci lavora, specie se disoccupati come gli ex dipendenti Eutelia: «Ma va! – ci risponde Gloria – Quando facciamo i mercati ci troviamo qui alle sei del mattino, visto che non puoi portare insalate ammosciate, in tre o quattro. Mettici la benzina, il costo del banchetto, le ore passate lì, e se va bene tiriamo su 30 euro, che sicuro non valgono le ore a zappare sotto il sole. Valgono però quello che ci disse Erri De Luca quando venne a trovarci e gli regalammo un cesto di ortaggi: “Ringrazio e mi spiace doverle caricare in auto, anziché in spalla per portarle a casa”».