Deborah Bergamini e l’elogio discreto del burlesque

Deborah Bergamini e l’elogio discreto del burlesque

La prima volta che ho assistito a uno show di burlesque è stato a Londra, quasi 15 anni fa, in un locale molto esclusivo. Sul piccolo
 palco una bellissima giovane donna, quasi nuda e truccata in modo 
grottesco, danzava, cantava e si produceva in siparietti che mi 
apparvero osceni, e mi procurarono ripulsa. Si ficcò in gola una
 lunga spada e si torturò la fronte con una spillatrice, producendosi
 ferite leggere ma sanguinolente, il tutto con fare sensuale e con uno 
sguardo sempre beffardo. Trovai questo spettacolo profondamente
 disturbante, e me ne andai a metà dello spettacolo.

Da allora il 
burlesque si è diffuso, si è assai diluito e normalizzato, è 
diventato una sorta di moda artistica mondiale, oggetto di reality e
 film, incubatore di star del mondo dello spettacolo come Dita von
Teese, e fenomeno quasi di massa, tanto che di anno in anno si 
moltiplicano le donne che in Occidente, provenienti da diverse classi 
sociali e culturali, vi si cimentano iscrivendosi a corsi e stage, e 
divertendosi alla grande.


Credo che il fenomeno del burlesque vada seguito con attenzione,
 perché ha due facce, e perché denota meglio di altre mode il dualismo
 del femminile contemporaneo. Da un lato evidenzia la straordinaria 
capacità di autoironia delle donne, che non esitano, in tempi di 
acceso dibattito (non certo solo presente in Italia) sulla loro
 dignità e sul loro ruolo sociale sempre più difficile da definire, a 
giocare sugli stereotipi di una femminilità esplosiva, iperbolica,
 caricaturale. A mascherarsi da femmine, femmine di tanto tempo fa, 
nate per trastullare l’uomo, incantarlo, sconvolgerlo. Ad adoperare
 uno sdoppiamento di sé tanto più impenitente quanto più la 
quotidianità allontana progressivamente le donne dalla loro
 femminilità e le trasforma in corpi, in funzioni, in incubatrici, in 
totem. A sfidare, in fin dei conti, proprio con l’autoironia, un
 sistema che sta togliendo loro ogni bellezza, e che offre loro solo
 paradigmi, canoni cui attenersi.


Dall’altro lato, però, questa moda è assai insidiosa, perché il
 burlesque non è una forma d’arte adatta alla superficialità di 
questi tempi. Si presta in modo immediato a semplificazioni, rischia
 di accelerare la stereotipizzazione della donna che torna oggetto – e 
che oggetto! – perché non sa, nella confusione, cos’altro essere. 
Rischia che non si colgano l’ironia e il gioco insiti in questa sfida
 della donna a se stessa, e che rimanga solo la propagazione,
 l’ennesima, di un modello grottesco che si affianca a certa moda, a 
certo spettacolo, a certi bisogni. Ancora una volta, rischia insomma 
di finire per configurare la donna come bersaglio. 
Da maneggiare con cura, quindi, questo burlesque, senza strafare, come
 si deve fare con tutte le sfaccettature del femminile.


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