La prima volta che ho assistito a uno show di burlesque è stato a Londra, quasi 15 anni fa, in un locale molto esclusivo. Sul piccolo palco una bellissima giovane donna, quasi nuda e truccata in modo grottesco, danzava, cantava e si produceva in siparietti che mi apparvero osceni, e mi procurarono ripulsa. Si ficcò in gola una lunga spada e si torturò la fronte con una spillatrice, producendosi ferite leggere ma sanguinolente, il tutto con fare sensuale e con uno sguardo sempre beffardo. Trovai questo spettacolo profondamente disturbante, e me ne andai a metà dello spettacolo.
Da allora il burlesque si è diffuso, si è assai diluito e normalizzato, è diventato una sorta di moda artistica mondiale, oggetto di reality e film, incubatore di star del mondo dello spettacolo come Dita von Teese, e fenomeno quasi di massa, tanto che di anno in anno si moltiplicano le donne che in Occidente, provenienti da diverse classi sociali e culturali, vi si cimentano iscrivendosi a corsi e stage, e divertendosi alla grande.
Credo che il fenomeno del burlesque vada seguito con attenzione, perché ha due facce, e perché denota meglio di altre mode il dualismo del femminile contemporaneo. Da un lato evidenzia la straordinaria capacità di autoironia delle donne, che non esitano, in tempi di acceso dibattito (non certo solo presente in Italia) sulla loro dignità e sul loro ruolo sociale sempre più difficile da definire, a giocare sugli stereotipi di una femminilità esplosiva, iperbolica, caricaturale. A mascherarsi da femmine, femmine di tanto tempo fa, nate per trastullare l’uomo, incantarlo, sconvolgerlo. Ad adoperare uno sdoppiamento di sé tanto più impenitente quanto più la quotidianità allontana progressivamente le donne dalla loro femminilità e le trasforma in corpi, in funzioni, in incubatrici, in totem. A sfidare, in fin dei conti, proprio con l’autoironia, un sistema che sta togliendo loro ogni bellezza, e che offre loro solo paradigmi, canoni cui attenersi.
Dall’altro lato, però, questa moda è assai insidiosa, perché il burlesque non è una forma d’arte adatta alla superficialità di questi tempi. Si presta in modo immediato a semplificazioni, rischia di accelerare la stereotipizzazione della donna che torna oggetto – e che oggetto! – perché non sa, nella confusione, cos’altro essere. Rischia che non si colgano l’ironia e il gioco insiti in questa sfida della donna a se stessa, e che rimanga solo la propagazione, l’ennesima, di un modello grottesco che si affianca a certa moda, a certo spettacolo, a certi bisogni. Ancora una volta, rischia insomma di finire per configurare la donna come bersaglio. Da maneggiare con cura, quindi, questo burlesque, senza strafare, come si deve fare con tutte le sfaccettature del femminile.