Sabato mattina è stata varata presso gli scali della Fincantieri di Riva Trigoso di Genova la fregata Virginio Fasan, seconda unità della classe Fremm (Fregata europea multi-missione) della Marina Militare. Si tratta di un’unità da quasi 6mila tonnellate a pieno carico, lunga oltre 140 metri, frutto di un programma congiunto italo-francese che prevede la realizzazione di 10 fregate per la nostra Marina e di 11 per quella transalpina. In realtà le navi italiane già finanziate (e con molta fatica) sono per ora solo sei, delle quali quelle già costruite o in costruzione quattro: oltre alla Fasan e alla capoclasse Carlo Bergamini attualmente alle prove in mare, negli scali ci sono la Carlo Margottini e la Luigi Rizzo.
Il varo della Fasan rappresenta una buona occasione per fare il punto sulla situazione della nostra Marina che, al pari delle altre Forze Armate, dovrà fare i conti con i tagli all’intero strumento militare italiano anticipati dal ministro della Difesa Giampaolo di Paola, il quale ha giudicato «insostenibili» le sue spese di funzionamento. L’argomento è estremamente delicato, poiché s’inserisce nel discorso più vasto, e mai compiutamente affrontato negli ultimi anni, sugli obiettivi da affidare alle Forze Armate, sui mezzi da mantenere e acquisire per raggiungerli e sul denaro da reperire per acquistare o rinnovare ciò che occorre. Ovviamente la Marina sa perfettamente ciò che ha, ciò che dovrà eliminare a breve perché usurato e ciò che le servirebbe per svolgere i compiti che le vengono affidati. Quel che non sa ancora è ciò che otterrà davvero. Dei primi due argomenti possiamo parlare subito, rimandando il terzo al ritorno del ministro Di Paola dall’Asia, dove s’è recato per dare il suo contributo all’intricata vicenda dei marò del San Marco detenuti in India e per presenziare all’avvicendamento, in Afghanistan, tra la Brigata Sassari in partenza da Herat e i bersaglieri della Garibaldi. Sappiamo che fino all’ultimo giorno prima della partenza per l’India, Di Paola ha lavorato al “dossier tagli” che ora lo attende sulla sua scrivania, a Palazzo Baracchini.
Il ministro non è un politico, ma un ex-ammiraglio che conosce la Marina meglio delle sue tasche. Anche con queste credenziali, per lui non sarà un’impresa da poco tracciare il futuro della Marina. Ma prima di parlare di che cosa questa forza armata può mettere in campo e di che cosa vorrebbe per il futuro, serve qualche spiegazione sul perché lo vorrebbe. Per definizione, basata però su dati di fatto acquisiti in secoli di esperienza, si dà per acquisito che la vita operativa utile del naviglio militare, almeno con i ritmi di sfruttamento tipici delle nostre navi, non possa generalmente superare i 30 anni. Dopo quel limite, si va incontro, oltre a un inevitabile scadimento del valore bellico delle unità che in realtà può avere ragioni diverse ed essere partito prima, anche a una diminuzione delle possibilità di mantenerle operative in scenari non bellici. Ciò avviene a causa della fatica delle strutture del naviglio e del deterioramento degli apparati, che costringe a investire molto denaro per la manutenzione, e in modo quasi sempre insensato. Insomma, tenere in mare navi obsolete e consunte costa moltissimo, senza per questo aver la certezza che i risultati previsti arriveranno. Non poche missioni delle nostre unità vengono portate a termine solo grazie all’abnegazione degli equipaggi, all’arte di arrangiarsi e una certa dose di quell’elemento imponderabile che si chiama fortuna. Non mancano gli oggetti scaramantici: chi scrive ha visto una volta, nei locali macchine di un vecchio cacciatorpediniere oggi in attesa di demolizione, un bel paio di grosse corna bovine. A volte servono.
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La questione degli arsenali e quella del personale
La fregata Virginio Fasan pronta al varo nei cantieri di Riva Trigoso
Fregate
Partiamo, ma per puri motivi di attualità, proprio dalla categoria delle navi di cui fa parte la Fasan, cioè le fregate, che costituiscono la spina dorsale della componente d’altura, i veri “cavalli da tiro” della squadra navale. Oggi sono in linea otto fregate della classe Maestrale e altre quattro che, pur essendo somiglianti, vengono definite “pattugliatori”. Le Maestrale, dette anche classe “Venti”, sono navi da circa 3mila tonnellate che risalgono alla prima metà degli anni ‘80, parecchio usurate a causa del loro impiego assai intenso (basti pensare alle varie missioni internazionali) e quindi prossime alla fine della loro vita operativa. Quattro di esse (Grecale, Libeccio, Scirocco e Zeffiro), quelle in migliori condizioni, sono state rimodernate (soprattutto nelle componenti radar e comunicazioni e negli apparati motori, molto meno nei sistemi d’arma) a partire dal 2005 in base a un contratto da circa 217 milioni di euro che comprendeva anche l’adeguamento dei due cacciatorpediniere Luigi Durand De la Penne e Francesco Mimbelli. Le altre quattro unità (Maestrale, Aliseo, Euro ed Espero) verranno invece impiegate fino all’esaurimento (che è molto vicino) e poi “cannibalizzate” per fornire parti di ricambio alle altre. Delle prime quattro, una, forse la Grecale, potrebbe essere trasformata in nave comando al servizio dei 12 cacciamine basati a La Spezia.
Quanto ai cosiddetti “pattugliatori”, sono in realtà le quattro fregate del tipo Lupo ordinate dall’Iraq nei primi anni 80 e rimaste da allora in naftalina in conseguenza del blocco delle esportazioni militari verso l’Iraq, in conflitto con l’Iran prima e contro la coalizione internazionale durante la Guerra del Golfo poi. Nonostante la forte opposizione della Commissione Difesa e anche della Marina Militare, che temeva che acquistarle avrebbe precluso l’ottenimento di finanziamenti per navi nuove di progetto più moderno (quello delle Lupo risaliva ai primi anni 70), le quattro ex-irachene vennero acquisite “obtorto collo” (al costo approssimativo di 1.090 milioni di euro) tra il 1994 e il 1996, aggiornate per adeguarle agli standard Nato e ribattezzate Artigliere, Aviere, Bersagliere e Granatiere. Si trattò ovviamente di un’acquisizione forzata, messa in atto anche per sollevare dell’annullato contratto con l’Iraq e dai conseguenti oneri economici la Fincantieri, alla quale le navi erano rimaste in carico. Già in parte superate al momento della loro entrata in servizio, le quattro unità (che la Marina chiama “classe Soldati”) sono state anch’esse molto sfruttate. La fine della loro vita operativa, quindi, non è lontana. Poiché le Fremm saranno, nel migliore dei casi, soltanto 10 (e il programma potrebbe anche subire decurtazioni), è facile concludere che la Marina non potrà contare su un tasso di sostituzione dell’intera linea di otto fregate e quattro pattugliatori (12 unità su base 1:1.
Se poi si considera che già al momento dell’avvio del programma Fremm erano state ritirate dal servizio le quattro fregate della classe Lupo, cedute al Perù tra il 2004 e il 2006 e mai sostituite, si può concludere che dall’intero processo radiazioni-sostituzioni la linea fregate della Marina ne uscirà pesantemente depauperata anche se verranno completate tutte le 10 Fremm. Se invece il programma si fermerà a sei unità le cose andranno assai peggio: mai e poi mai sei fregate, pur modernissime, riusciranno a fare ciò che si faceva con 16. C’è un’ulteriore complicazione. Il programma Fremm al completo prevede 10 navi delle quali sei in versione GP (General Purpose), cioè con caratteristiche bilanciate tra le tre specializzazioni possibili: antinave, antierea e antisommergibili) e quattro più orientate al ruolo antisommergibili (ASW). Ciò è ovviamente frutto di precisi studi della Marina basati sulla prevedibile evoluzione della minaccia nei teatri dove le navi dovranno operare. La prima unità, la Bergamini, è una GP, la Fasan varata sabato è una ASW, come le altre due già in costruzione. Dell’altra coppia di navi finanziate, ma non ancora sugli scali, una dovrebbe essere in versione ASW e l’altra in versione GP. Le successive quattro navi, per ora non finanziate e la cui realizzazione non è ancora stata confermata, dovrebbero essere tutte in versione GP per rispettare la ripartizione voluta dalla Marina. Ciò è vero, però, sulla base del programma originario per 10 navi. Ma se lo si arrestasse a sole sei, bisognerebbe che fossero tutte in versione GP e anche in questo caso la Marina si troverebbe comunque a disporre di un bilanciamento ben diverso da quello desiderato: tre GP e tre ASW. Tra le alternative che il ministro Di Paola dovrà esaminare c’è dunque quella di fermare il programma a sei navi, o di mantenerlo a 10 oppure di ridurlo, per esempio, a otto, come indicano alcune indiscrezioni. In quest’ultimo caso, variando il procurement degli apparati da installare sulle unità ancora da costruire (cosa sempe fastidiosa e talvolta non a costo zero), avremmo una composizione delle Fremm pivicina ai desiderata della Marina: cinque GP (general purpose) e tre ASW (antisommergibili), ma con un numero complessivo di navi del tutto insufficiente a svolgere i compiti ora assegnati a quelle da dismettere. Compiti che, quindi, andranno rivisti al ribasso.
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La portaerei Cavour
Portaeromobili
In questo settore la Marina può contare oggi sulla nuovissima Cavour, con apparati allo stato dell’arte e perfettamente idonea a ospitare comandi complessi indispensabili a svolgere e a supportare operazioni con marine alleate di proiezione di forza mediante il potere aereo, coordinando inoltre le unità di scorta e le altre eventualmente assegnate al gruppo navale. Il principale sistema d’arma della Cavour è costituito dagli aerei a decollo verticale AV8-B, che andranno sostituiti dalla versione STOVL del caccia americano F-35, la “B” è destinata all’impiego da portaerei senza catapulte come appunto è la Cavour. Il destino del costosissimo F-35B (al cui sviluppo l’Italia partecipa economicamente come partner di Stati Uniti e Inghilterra), è però avvolto da nubi che non si sono ancora diradate del tutto. Gli Usa s’interrogano sull’opportunità proseguire nel progetto o di sviluppare solo la versione “A” tradizionale e quella “C” che è “navalizzata” (cioè adattata al particolare impiego a bordo), ma che può decollare solo dalle grandi portaerei dotate di catapulte. L’Inghilterra ha già rinunciato alla versione “B” e ha deciso di passare alla “C” installando le rivoluzionarie catapulte elettromagnetiche americane EMALS sulle sue grandi portaerei in costruzione, cosa impossibile per la nostra Cavour per via delle sue dimensioni più contenute.
Insomma, la variante “B” del caccia è appesa a un filo e la sua eventuale mancata acquisizione da parte dell’Italia, oltre a costituire uno spreco del denaro che anche noi abbiamo già speso per il suo sviluppo, lascerebbe la Marina nell’imbarazzante situazione di disporre di una portaerei nuova di zecca e dotata di elicotteri, ma senza l’artiglio a lungo raggio costituito dagli aerei che costituiscono la sua principale ragion d’essere. Il velivolo statunitense, infatti, non ha attualmente alternative a livello mondiale e non è pensabile un aggiornamento degli AV8-B in servizio, il cui progetto risale peraltro a qualche decennio fa. L’altra nostra portaeromobili, il Garibaldi, entrato in servizio nel 1985, è quindi quasi pronta per la pensione e non si parla di rimpiazzo. Tuttavia, visto che si tratta comunque di una piattaforma di valore dotata di un prezioso ponte di volo, la Marina sta pensando d’impiegarla per rinforzare la sua flotta di tre navi anfibie. Un ripiego che servirebbe a colmare temporaneamente le difficoltà del settore, delle quali parleremo più avanti.
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Veduta aerea del cacciatorpediniere Luigi Durand de La Penne (D 560) in navigazione
Cacciatorpediniere
Dopo l’ultimo ammainabandiera del Vittorio Veneto, nel 2003, la Marina Mllitare non possiede più incrociatori. Quindi le nostre navi di maggior valore dopo le portaerei sono oggi i cacciatorpedinieri. Con il ritiro dei due venerandi Audace e Ardito, le ultime navi della Marina con propulsione basata su turbine a vapore (con il secondo “azzoppato” da una collisione con il nostro sommergibile Da Vinci al largo di Tolone fin dal 1991 e mai riparato completamente), la linea cacciatorpedinieri è basata su quattro unità. Le due principali, recentissime, sono i caccia antiaerei Andrea Doria e Caio Duilio (in origine ne erano previsti quattro, con la seconda coppia annullata per restrizioni del bilancio), da 7.050 tonnellate, frutto di un altro programma in comune con la Francia. Seguono i due (anch’essi dovevano essere quattro) Luigi Durand De La Penne e Francesco Mimbelli, ugualmente con spiccate capacità antiaeree, che risalgono alla prima metà degli anni ‘90 e che quindi hanno davanti ancora 10-12 anni di vita utile. Andrea Doria e Caio Duilio sono costruiti intorno al moderno radar multifunzione Empar di Selex Sistemi Integrati (del gruppo Finmeccanica) e ai lanciatori verticali che consentono di far partire differenti tipi di missili in rapida sequenza e hanno dotazioni all’avanguardia in ogni altro settore. Sono quindi unità allo stato dell’arte che nulla hanno da invidiare alle contemporanee realizzazioni estere.
Diverso il discorso degli altri due caccia, da 5mila 400 tonnellate, che sono stati recentemente aggiornati nelle componenti sistemi di scoperta e combattimento, missilistica (con l’implementazione di una certa capacità “land attack” per i missili antinave Teseo) e artiglieresca, ma che soffrono di un peccato originale: non sono dotati di sistemi di lancio verticale dei missili, che pure erano già disponibili all’epoca della loro progettazione, ma degli antiquati sistema a rampa singola Mk 13 per i missili a medio raggio e al sistema 8 celle Albatros per quelli a breve raggio. Il primo permette di lanciare un singolo missile a medio raggio Standard SM-1 MR, dopodiché il fuoco s’interrompe per otto secondi, cioò fino all’avvenuta ricarica della rampa stessa, che si attua movimentando i missili dai sottostanti depositi concentrici che ne contengono 40. Il sistema Albatross, invece, dispone di otto celle che, una volta lanciati tutti i missili Aspide che contiene (uno per cella), va anch’esso ricaricato, quattro celle alla volta, da un magazzino che contiene quattro gruppi di quattro celle ciascuna per un totale di 16 missili. L’adozione successiva dei pozzi per i lanciatori verticali avrebbe richiesto una radicale e costosa ricostruzione delle navi, ma in considerazione della loro vita residua, la Marina non ha ritenuto tale soluzione costo/efficace. Dunque, l’aggiornamento dei due caccia è stato rivisto con obiettivi ridotti e i fondi risparmiati sono stati impiegati per estendere le capacità antiaeree delle fregate Fremm adottando il missile Aster 30 e la relativa elettronica di controllo, spalmando oltretutto tali capacità su un numero di unità più elevato. Al momento non si parla nemmeno di una seconda coppia di nuovi caccia, quindi questa componente della Marina, una volta radiati De La Penne e Mimbelli intorno al 2020, sarà basata appena su due navi, il che ne lascerà inevitabilmente soltanto una disponibile quando l’altra sarà in manutenzione.
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Il sommergibile Todaro
Sommergibili
La componente subacquea della Marina si articola oggi su sei sommergibili (per tradizione la Marina li chiama anche “battelli” e il termine non ha alcuna finalità riduttiva o dispregiativa), due del tipo 212A, di progettazione tedesca e dei quali l’Italia ha acquistato i piani di costruzione affidandone poi la realizzazione a Fincantieri, più i quattro rimanenti della classe Sauro di concezione nazionale, superstiti di una serie che ne comprendeva otto. Sono tutti basati a Taranto alle dipendenze di ComForSub (Comando Forze Subacquee). Ce ne sarebbe anche un quinto, il Da Vinci dislocato a La Spezia per impieghi sperimentali, oggi con equipaggio ridotto, langue in una condizione che precede il disarmo. I due 212A, il Salvatore Todaro e lo Scirè, grazie alla propulsione anaerobica basata su celle a combustibile che permette loro una navigazione in immersione silenziosissima e di lunga durata, rappresentano in pratica il fiore all’occhiello della cantieristica subacquea europea e hanno permesso alla nostra Marina un vero salto tecnologico in questo particolare settore, sia sotto l’aspetto della filosofia d’impiego, sia delle procedure di manutenzione, sia della logistica dei ricambi. Per essere davvero completi manca loro soltanto la possibilità d’imbarcare, oltre ai normali siluri A184 Mk 3 prodotti dall’italiana Wass, i missili a cambiamento d’ambiente lanciabili in immersione, un’idea che la Marina aveva accarezzato per qualche tempo anche per i Sauro, ma che è stata poi abbandonata in favore della possibilità di ospitare a bordo dei 212A elementi delle forze speciali per operazioni di infiltrazione – esfiltrazione in territorio nemico, con i loro equipaggiamenti.
I quattro Sauro sono suddivisi in due serie leggermente diverse tra loro. La prima è composta dal Giuliano Prini e dal Salvatore Pelosi, la seconda dai più moderni Gianfranco Gazzana Priaroggia e Primo Longobardo. Si tratta di battelli a propulsione diesel-elettrica tradizionale e di concezione ormai superata (il progetto dei Sauro risale ai pirimi anni ‘70), anche se recentemente tutti hanno ricevuto una nuova suite sonar della tedesca Atlas e un nuovo sistema di combattimento, un’accoppiata dalle prestazioni enormemente superiori rispetto agli apparati precedenti e della quale la Marina piuttosto soddisfatta. Dalle ultime informazioni disponibili, il ritiro dal servizio del Prini e del Pelosi, entrati in linea alla fine degli anni ‘80, è ormai prossimo: avverrà non appena le loro batterie non saranno più idonee (sostituirle è molto costoso), cioè entro due-quattro anni. In pratica, stante la penuria di fondi, i due battelli verranno eliminati anche se le condizioni degli scafi e di molti apparati potrebbero in teoria permetterne l’operatività per altri 6-7 anni. La seconda coppia di Sauro, completata negli anni 1994-1995 e uscita da poco dai lavori di mezza vita, rimarrà operativa solo per qualche anno in più. Sugli scali della Fincantieri, al Muggiano, ci sono attualmente altri due 212A, ancora senza nome, che saranno consegnati nel 2015 e nel 2016, cioè contemporaneamente alla radiazione dei due Sauro più anziani.
All’orizzonte non c’è null’altro, quindi la componente subacquea della Marina si standardizzerà in futuro su quattro unità tipo 212A, insufficienti a far fronte alle necessità attuali. Un vero peccato, per una Marina come quella italiana che dispone, a Taranto, di una Scuola Sommergibili che non ha uguali in tutto il bacino del Mediterraneo e anche oltre. A corollario, c’è da dire che le maestranze di cantiere dedicate alla saldatura dei particolari acciai amagnetici utilizzati per la costruzione degli scafi dei sommergibili sono molto specializzate e devono tenersi allenate per mantenere la qualifica. Se la perdono per colpa della prolungata inattività la “patente” scade e gli operai devono essere riqualificati. Inoltre, non proseguire nella realizzazioni di altri sommergibili vanificherebbe gli investimenti fatti a suo tempo per acquisire dalla Germania tecnologie e progetti che abbiamo pagato molto profumatamente: la prima coppia di 212A è costata circa 920 milioni di euro.
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Driade, corvette classe Minerva II serie
Corvette e pattugliatori
La linea corvette costituita oggi da otto unità della classe Minerva, completate dal 1987 al 1991 in due serie di quattro: la prima comprende Minerva, Urania, Danaide, Sfinge, la seconda Driade, Fenice, Chimera, Sibilla. Benché siano navi che potrebbero aspirare a ruoli ben più “combattenti” sono tutte basate ad Augusta (Siracusa) e fanno parte del Comando Forze da Pattugliamento (ComForPat) che si occupa prevalentemente della sorveglianza anti-immigrazione e anti-contrabbando, della difesa dei confini marittimi e della vigilanza pesca nel Canale di Sicilia. Numerosi ufficiali di Marina, poi, hanno avuto il loro primo comando proprio su questa unità che in passato sono state spesso utilizzate appunto nelle attività cosiddette di “scuola comando”. In ogni caso, le Minerva prima serie sono state declassate qualche anno fa al ruolo d pattugliatori, subendo lo sbarco dei tubi lanciasiluri e del sistema antimissile Aspide, perdendo buona parte delle caratteristiche combattenti e ritornando quindi a ricoprire anche il ruolo di unità addestrative per i giovani ufficiali tirocinanti in fase di qualificazione al comando. In realtà, la Marina considera tutte le Minerva pattugliatori a ogni effetto. Le otto unità, a causa dell’intenso impiego in compiti logoranti, sono vicine al termine della vita operativa. Nelle intenzioni della Marina, le quattro declassate a pattugliatori sono in vendita, ma la loro cessione ad altre Marine appare francamente un po’ problematica, anche se molte Marine sudamericane non disdegnano talvolta l’acquisto di materiali che quelle occidentali non ritengono più idoneo.
Le forze da pattugliamento comprendono poi le quattro unità della classe “Comandanti” (Cigala Fulgosi, Borsini, Bettica e Foscari) da 1.890 tonnellate, consegnate a partire dal 2001 e quindi in buone condizioni. Sono le prime navi minori italiane costruite con criteri “stealth” piuttosto spinti, cioè con accorgimenti utili a ridurre la segnatura radar e quindi la possibilità di essere scoperte. Dotate di elicottero e di hangar telescopico per ospitarlo, hanno armamento ridotto con possibilità di integrazioni e imbarcano sistemi di scoperta ed elettronica adatti a ruoli combattenti in scenari caratterizzati da una bassa intensità della minaccia. Vanno poi citate le due unità con scafi derivati da queste ultime, Sirio e Orione, recenti (2003) e realizzate con fondi del ministero del Trasporti. Hanno linee di scafo simili a quelle delle “Comandanti”, ma sono prive di hangar, dispongono di elettronica ridotta, velocità inferiore in virtù di motori meno potenti e la sola predisposizione a imbarcare l’armamento principale, ora non presente. Sono dunque più adatte a ruoli di sorveglianza in scenari a basso rischio e sono equipaggiate anche con dispositivi per la lotta all’inquinamento. Gli stessi ruoli sono ricoperti da altre quattro unità che portano anch’esse i nomi di costellazioni (Cassiopea, Libra, Spica e Vega), finanziate con fondi dell’allora ministero della Marina Mercantile e acquisite tra il 1989 e il 1991. Sono in servizio anche quattro piccoli pattugliatori da 162 tonnellate (Esploratore, Staffetta, Vedetta e Sentinella) che operano a Sharm El Sheik alle dipendenze della “Multinational Force and Observers” nella sorveglianza dello stretto di Tiran. Sono stati realizzati tra il 1997 e il 2005 e sono quindi ancora idonei al servizio.
Nei suoi programmi futuri, la Marina vorrebbe acquisire 12 nuovi grandi pattugliatori per sostituire su base 1:1 le otto Minerva e le quattro Cassiopea. Il progetto c’è già: si tratterebbe di unità veloci da circa 2mila 700 tonnellate con elicottero e hangar e caratterizzate dalla modularità, cioè realizzate con capacità “base”, ma riconfigurabili per diversi tipi di missione mediante l’imbarco di appositi moduli funzionali. Sono concetti già noti e applicati da tempo all’estero (per esempio in Danimarca con le corvette Standard Flex), ma che nella nostra Marina troverebbero applicazione solo ora, sempre che il programma si concretizzasse. Tuttavia, Fincantieri ha confermato che per ora l’affinamento dei piani costruttivi è fermo, come l’intero progetto.
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Chioggia, cacciamine classe Gaeta
Cacciamine
La forza di contromisure mine, basata alla Spezia e alle dipendenze di ComForDrag, il Comando Forze di Dragaggio, dispone di un gruppo omogeneo di 12 cacciamine suddivisi in due classi denominate anche “borghi marinari”: la classe Lerici (quattro unità: Lerici, Sapri, Milazzo e Vieste) da 503 tonnellate, e la classe Gaeta composta da otto unità più grandi e moderne da 672 tonnellate (Gaeta, Termoli, Alghero, Numana, Crotone, Viareggio, Chioggia, Rimini). Sono navi ben riuscite e largamente esportate, utilizzate non solo in funzione anti-mine, ma anche in compiti di sorveglianza dei fondali e degli accessi ai porti. Costituiscono un’eccellenza italiana e, nell’ottica delle forze integrate Nato impegnate in operazioni multinazionali, rappresentano anche una preziosa merce di scambio che spesso “prestiamo” ad altre Marine dell’Alleanza in cambio di altri assetti nei quali siamo più deboli, per esempio il rifornimento in mare.
Al momento si parla in modo piuttosto nebuloso di nuove acquisizioni e intanto, nel futuro più vicino, la componente anti-mine verrà ridotta da 12 a otto unità in vista della dismissione delle quattro Lerici che risalgono alla prima metà degli anni ‘80. Le otto Gaeta vengono attualmente sottoposte a un programma di aggiornamento del valore di circa 155 milioni di euro che ne prolungherà a vita almeno fino alla fine del decennio, oltre il quale, però c’è attualmente solo il buio. Esiste (o esisteva) anche un programma per la realizzazione di un’unità comando per i cacciamine, un ruolo svolto in precedenza dalla vecchia ex-fregata Alpino, oggi radiata. Si tratta di un progetto del quale non si parla da un po’, e ci potrebbe indicare che verrà quasi certamente abbandonato per motivi economici, con i compiti di nave comando probabilmente assegnati a una delle fregate della classe Maestrale non rimodernate.
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San Giusto, assalto Anfibio, classe San Giusto
Navi per operazioni anfibie
La Marina dispone oggi di tre navi dedicate a questi compiti, tutte basate a Brindisi presso il Comando Forze da Sbarco (ComForSbarc): San Giorgio, San Marco e San Giusto. Le prime due, da 8mila tonnellate, risalgono al 1989, mentre la terza, di dimensioni simili ma con caratteristiche migliorate, è del 1994. Sono tutte unità che, insieme ai tradizionali compiti di trasporto e proiezione di forze da sbarco (Lagunari e reggimento San Marco) possono venire e sono utilizzate anche per compiti di protezione civile in caso di calamità naturali. Il loro difetto, a parte quello di essere ormai vecchiotte, risiede nelle dimensioni troppo contenute, e la Marina aspira da tempo a sostituirle con unità ben più capaci, simili a quelle realizzate o in corso di acquisizione da parte di tutte le maggiori Marine europee.
Gli orientamenti sono per un’unità tipo LHD (Landing Helicopter Dock) di dislocamento compreso tra le 15 e le 20mila tonnellate, dotata di ponte di volo e di bacino allagabile in grado di movimentare contemporaneamente almeno due mezzi da sbarco, una possibilità preclusa a quelle oggi in servizio. Nel tempo, il progetto è stato rimaneggiato più volte con la solita “strizzata d’occhio” alla Protezione Civile, ossia, similmente a quanto fatto con le unità classe “Santi”, con l’implementazione di compiti più vicini a quelli da svolgere in caso di calamità naturali che a quelli propriamente militari. Lo scopo, ovviamente, è quello di far finanziare le navi, almeno in parte, con fondi provenienti non solo dal dicastero della Difesa, ma anche da altri che le sfrutterebbero qualora necessario. Del resto, sempre meglio avere navi da condividere che non averle per niente e le capacità anfibie sono per la Marina un assetto irrinunciabile. Anche in questo caso, le sue aspirazioni dovranno fare i conti con i tagli prospettati dal ministro Di Paola.
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La nave logistica Etna (A 5326, al centro) impegnata nel rifornimento laterale del caccia Francesco Mimbelli (D 561, a sinistra) e del pattugliatore Comandante Borsini (P 491, a destra)
Navi per l’appoggio logistico
In questo settore, che costituisce un formidabile moltiplicatore di forze per qualsiasi squadra navale soprattutto in caso di operazioni in acque lontane dalle basi nazionali o amiche, la situazione della nostra Marina è estremamente precaria. Abbiamo in servizio tre unità, l’Etna, lo Stromboli e il Vesuvio. La prima è un’unità abbastanza moderna da 13mila 400 tonnellate nel cui progetto, oltre ai ruoli tradizionali di ricostituzione delle scorte di carburante alle unità navali mediante la tecnica del rifornimento laterale in mare, di fornitura di munizioni, di parti di ricambio e di cibarie anche con modalità VertRep (Vertical Replenishment) con elicotteri dal ponte di volo, sono stati implementati anche quelli di nave comando e di nave ospedale. L’Etna, infatti, nel primo ruolo ha sostituito nel 2006 nientemeno che una portaerei americana nell’Oceano Indiano e recentemente ha fatto lo stesso nelle operazioni anti-pirateria svolte nell’area. Per quanto riguarda il secondo ruolo, la nave è dotata di un centro ospedaliero completo in grado di supportare le esigenze sanitarie fuori area di un’intera flotta.
Le altre due unità, Stromboli e Vesuvio, sono il vero punto dolente della Marina: oltre a essere assai più piccole (8mila 700 tonnellate per 130 metri di lunghezza) e ovviamente di minori capacità rispetto all’Etna, sono davvero ai limiti della resistenza e anche oltre: sono state consegnate, rispettivamente, nel lontano 1975 e nel 1978. Per la loro sostituzione, la Marina ha bisogno di altrettante unità che potrebbero assomigliare alle due unità polivalenti da 27mila 500 tonnellate recentemente fornite alla Marina indiana o essere realizzate sul medesimo scafo della già citata LHD da 15-20mila tonnellate per le forze anfibie. Le ultime indiscrezioni, da prendere con le dovute cautele, indicano che di nave, qualunque sia, se ne è costruita soltanto una, smentendo l’allora capo di Stato Maggiore dalla Marina, ammiraglio Bruno Branciforte, che nel 2008, in un’audizione al Senato, aveva dichiarato che è necessario disporre di almeno tre navi logistiche, che costituiscono il minimo assoluto per poterne sempre impiegare una in missione.
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L’Amerigo Vespucci
Navi scuola
La specialità più pittoresca della Marina conta sul celeberrimo Amerigo Vespucci, veliero di 4mila 146 tonnellate completato nel lontano 1931 e dedicato alle crociere addestrative degli allievi dell’Accademia Navale di Livorno, sul più piccolo Palinuro del 1955, di 1.341 tonnellate, a disposizione per l’addestramento dei nocchieri, e di varie barche a vela (Orsa Maggiore, Capricia, Caroly, Corsaro II, Italia, Sagittario, Stella Polare). Al momento non pare vi siano in programma dismissioni o acquisizioni e l’unica novità riguarda l’adozione di un nuovo sistema di automazione e supervisione della piattaforma per il Vespucci, dell’installazione di nuovi generatori elettrici e della revisione totale dell’apparato di propulsione della nave. I lavori, eseguiti da Selex Elsag (del gruppo Finmeccanica), sono attualmente in corso a La Spezia e il veliero rientrerà in servizio nella primavera dell’anno prossimo, pronto per la campagna d’istruzione del 2013.
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La nave da salvataggio sommergibili Anteo
Altre unità
Passando in rassegna le altre specialità della Marina che usufruiscono di unità dedicate, non si può non citare il salvataggio dei sommergibili sinistrati e il servizio idrografico. Abbiamo una sola unità che svolge il primo compito, l’Anteo da 3mila 120 tonnellate, in servizio dal lontano 1980 e quindi da considerare vetusta, anche se dotata di equipaggiamenti di soccorso ancora all’altezza. Fincantieri ha messo a punto un progetto per la sostituta, una nave da 4mila 400 tonnellate lunga 103 metri e dotata di propulsori azimutali ed elica prodiera di manovra, una configurazione molto adatta alle operazioni di soccorso di un sommergibile poiché consente di mantenere il posizionamento di precisione della nave sullo scafo immerso. Al momento, per benché l’unità sia nella lista della spesa della Marina almeno dal 2008, non è stato ancora firmato alcun contratto. Per quanto riguarda il settore idrografico, benché siano in servizio dal 2002 due piccole unità con scafo a catamarano da 410 tonnellate, l’Aretusa e la Galatea (quest’ultima intervenuta per investigare i fondali del Giglio in occasione dell’incidente alla Costa Concordia), adatte al servizio costiero, la nave oceanografica per eccellenza è l’Ammiraglio Magnaghi che tuttavia, essendo del 1975, ha abbondantemente superato i limiti di età ragionevoli.
Anche in questo caso, la Marina chiede da anni la sua sostituzione, ma per il momento non ci sono progetti concreti né finanziamenti assegnati. Una possibile linea guida potrebbe derivare dalla Sagar Nidhi da 5mila tonnellate, una nave oceanografica recentemente realizzata per l’India. Per quanto riguarda le forze speciali, cioè gli incursori della Marina dislocati al Varignano, per ovvie ragioni si sa molto poco dei sistemi che impiegano. Oltre ai mezzi d’assalto eredi dei famosi “Maiali” della Seconda Guerra, si sa che sono in servizio mezzi semi-sommergibili veloci per operazioni occulte, ma nulla è molto chiaro circa i loro dettagli, le dismissioni e le acquisizioni future. È noto però che si tratta di una componente d’elite della Marina a favore della quale gli stanziamenti per equipaggiarla al meglio non sono mai mancati.
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AV8-B Harrier
Aeromobili
Oltre alla spinosa questione del caccia imbarcato F-35B in sostituzione dei 16 AV8-B Harrier di abbiamo già detto, la Marina ne deve affrontarne altre. Per esempio, la sostituzione dei rimanenti 32 (degli originari 67) elicotteri AB212 imbarcati sulle navi che possono ospitarli con 46 nuovi NH90 e, inoltre, quella degli anziani Sikorsky SH-3D, in via di progressiva sostituzione con 24 gli Agusta Westland AW101. Di questi ultimi ne rimangono da consegnare ancora tre esemplari, quindi il programma può dirsi pressoché concluso, tranne che per l’acquisizione dei futuri aggiornamenti, che potrebbero essere posticipati o annullati in base alle disponibilità economiche.
Il programma NH90, invece, è in pieno svolgimento e l’acquisizione dell’elicottero potrebbe essere rimodulata in base ai nuovi assetti della flotta risultanti dai tagli. Gli ultimi dei 15 pattugliatori antisommergibili Breguet BR 1150 Atlantic inquadrati nel 41° Stormo dell’Aeronautica (ma con equipaggii misti Aeronautica-Marina) e basati a Sigonella, in Sicilia, sono ormai inattivi per esaurimento completo della cellula. Saranno sostituiti da soli quattro ATR 72 ASW di derivazione civile e con autonomia di volo limitata. Quella del pattugliamento antisommergibile a lungo raggio mediante aerei creati a questo scopo è dunque una specialità che la Marina ha perso in cambio di un surrogato di efficacia minore, anche se va detto che la possibilità che sommergibili di nazioni potenzialmente ostili navighino nelle nostre acque nazionali oggi è praticamente ridotta a zero.
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Arsenale di La Spezia
La questione degli arsenali e quella del personale
Oltre ai problemi dell’obsolescenza del materiale e della scarsità dei fondi per sostituirlo, Di Paola dovrà affrontare altre due questioni molto spinose: quella degli arsenali (che sono tre, forse troppi: La Spezia, Taranto e Augusta) e quella della ridondanza del personale civile e militare della Marina (ma anche delle altre Forze Armate), il cui mantenimento assorbe una quota inaccettabile dei pochi soldi disponibili, sottraendola ai capitoli investimento e funzionamento. Nei ranghi degli ufficiali, ed è un problema datato contro il quale si sono infrante le migliori intenzioni (dichiarate) dei ministri precedenti, crescono le cosiddette “figure apicali”, ossia ammiragli e contrammiragli, mentre tra i sottufficiali dilagano i marescialli. Insomma, in entrambi i settori abbondano le figure professionali con anzianità e stipendi elevati. Di contro si sente, e molto, la mancanza di sergenti e di giovani graduati. La situazione frutto di una politica di arruolamenti e avanzamenti che si trascina da tempo e che evidentemente ha portato a risultati abnormi e opposti a quelli desiderabili. Arsenali e marinai sono dunque due bruttissime gatte per pelare le quali il ministro Di Paola dovrà utilizzare, e con decisione, un coltello estremamente affilato.