Incuria e cemento, l’archeologia offesa intorno a Roma

Incuria e cemento, l’archeologia offesa intorno a Roma

Per ammirare la grandezza dei Romani non bisogna, necessariamente, andare a Roma dove ciascun monumento, nella sua singolarità, costituisce l’esplicitazione, quasi sempre migliore, di una lunga sperimentazione. L’esito finale di una ricerca, sulla specifica tipologia e sulla sua realizzazione pratica, sul disegno e sulle tecniche costruttive, insomma su quelle che si possono a buon diritto definire le fasi programmatiche ed esecutive, svolta altrove. Nelle tante città, piccole e grandi, dello stivale e non solo. Luoghi, spesso, di sperimentazione. Ricorrendo ad una metafora, Palestre nelle quali studiare e provare azioni, gesti da riproporre nell’incontro che più conta.

Tra queste palestre, questi luoghi di sperimentazione, un grande interesse, almeno al pari di altri, suscita il comprensorio dei Colli Albani, cioé quell’area a Sud di Roma nella quale dovrebbe trovarsi la mitica Alba Longa e nella quale s’impiantarono, nel corso dell’antichità, tanti centri di straordinaria importanza. Città con una propria definita fisionomia, strade basolate fiancheggiate da sepolcri, anche imponenti, ville di ignoti personaggi, come di rappresentanti della famiglia imperiale, accampamenti, santuari, banchinamenti e approdi lungo l’orlo dei laghi di Castelgandolfo e Nemi e acquedotti. Segni materiali di fasi differenti della nostra storia più antica.

Su queste pagine di civiltà si sono abbattutte a partire dagli anni Settanta del Novecento, con una pericolosa e distruttiva accellerazione dalla fine degli anni Ottanta, le mire pubbliche e private di amministratori e costruttori, singoli proprietari e cooperative. È cosi che paesi, generalmente di media grandezza, hanno aggiunto ai loro centri storici misurati e esteticamente “gradevoli”, espansioni abnormi e oggettivamente “sgraziate”, nuove dimore per molti romani in fuga dalla Città.

È cosi, che, soprattutto, i territori di quei Paesi, hanno perso il carattere rurale che a lungo li ha contraddistinti, per assumerne uno meno definito. Nel quale le nuove cubature, tante volte originariamente abusive e poi regolarizzate contando sul condono di turno, hanno soffocato parti considerevoli. Hanno inghiottitto chilometri e chilometri di pianure e colline, tradizionalmente coltivate. Solo per rimanere alle presenze più rilevanti, Boville, Castel Gandolfo, Marino, Albano, Ariccia, Genzano, Lanuvio, Rocca di Papa e Rocca Priora sono i nomi attuali. Nomi che spesso riecheggiano l’antica grandezza, senza averne che poco rispetto. Bovillae, Castrimoenium, Castra Albana, Aricia, Lanuvium, lucus Dianae, tempio di Giove laziale, ville di Domiziano, di Pompeo, cd. di Clodio.

In quei luoghi nei quali la storia di Roma ha per certi versi avuto la sua origine, nulla hanno potuto i singoli PRG e la Soprintendenza archeologica. La mancanza di un autentico controllo ha permesso che andassero così persi monumenti di rilievo, strutture di grande interesse. Anche quelli di maggior mole, che se non altro il buon senso avrebbe dovuto sconsigliare di abbattere. Per intero, improvvisamente oppure per parti, pù lentamente. La black list, sfortunatamente, é quasi interminabile. Con l’aggravante che lì dove non é intervenuta la furia quasi distruttrice, indisturbata governa l’incuria, l’abbandono. Al punto tale, che quel che rimane può trovare una sua più che plausibile giustificazione nel caso piuttosto che in una precostituita ed ordinata opera di tutela e salvaguardia.

Senza contare che gran parte del patrimonio superstite risulta di difficile accesso o addirittura inaccessibile. Al turista occasionale sarebbe quasi impossibile, il più delle volte, raggiungere il monumento per il quale ha deciso di avventurarsi tra le strade di un paese, come per la campagna di un centro. La segnalatica é quasi inesistente e salvo rari casi quando é presente é talmente annosa da risultare di ben scarso ausilio. Rimangono le guide archeologiche certo. Ma proprio per il loro carattere, per l’ambito geografico preso in esame, non sempre danno indicazioni realmente utili a raggiungere l’agognato monumento. Senza contare che proprio il progressivo fenomeno dell’urbanizzazione, in continua evoluzione, contribuisce spesso a rendere inattuali i riferimenti presi in considerazione. Ma anche quando si ha la buona sorte di raggiungere quel monumento così a lungo inseguito, con stupore, non di rado, si rileva come esso si trovi in una proprietà privata e che dunque sia necessario chiedere l’autorizzazione al proprietario per arrivare, finalmente, vis a vis con esso.

Succede per i resti in opera laterizia di un grandioso edificio termale e per la cella in opera quadrata del cosiddetto tempio di Diana, oltre che per imponenti tratti di mura dell’arx, nel cosiddetto orto di mezzo a sud dell’abitato di Ariccia, a pochi metri dal tracciato dell’antica via Appia, all’interno dell’Aricia romana. Succede, sempre ad Aricia, per lunghi tratti delle mura romane a sud della via Appia antica, per il monumentale viadotto, o per grandiose sostruzioni anche articolate planimetricamente a sostegno di edifici ormai scomparsi, lungo via Appia Nuova e in via del Crocifisso. Succede, ancora ad Aricia, per i resti con mosaici ragguardevoli in località Grottalupara e per diversi sepolcri lungo via Appia antica.

Ma succede anche a Lanuvio. Nelle sue campagne. Per il fronte di cava, riutilizzato per un colombario e i sepolcri, in via dei Pantanacci, per la grandiosa sostruzione di una villa in contrada Vagnere. Per le sostruzioni di un’altra villa e le tombe lungo via Appia vecchia. Ugualmente succede nelle campagne di Genzano. Per i resti di villa in contrada Pozzo Bonelli, per quelli riferiti alla villa di Antonino Pio a Monte Cagnoletto, per la struttura sulla sommità di Monte Due Torri. Per non parlare della cosiddetta Osteria di San Gennaro e per il castello medievale con resti di strutture romane lungo la via Appia Vecchia. Sorte non dissimile accomuna le “antichità” di Nemi, a partire da buona parte delle strutture del celebre santuario di Diana, nelle vicinanze dell’orlo lacustre. Ma anche della grandiosa cisterna nelle sue vicinanze, come della basis villae presso Monte Canino.

Ai tanti, tantissimi, casi suddetti, per i quali la visione appare vincolata al parere del proprietario del fondo sul quale insistono, vanno poi aggiunti quelli per i quali non é proprio contemplata. Casi più episodici, certo, ma non per questo meno gravi. Anche considerando che generalmente si tratta di aree nelle quali, nel passato recente, si sono effettuate indagini di scavo. Come nel caso della villa lungo la via laviniense, off limits dai primi anni Novanta del Novecento. Oppure ancora periodicamente si svolgono indagini di scavo. Come, invece, nel caso del santuario di Diana, recintato e inaccessibile.

Qualora si voglia poi indagare il patrimonio distrutto, si aprirebbe un capitolo ancora più ricco di testimonianze e quindi più doloroso. Distruzioni, beninteso, realizzate non nei secoli passati quando cultura e legislazione sull’argomento erano ancora patrimonio di pochi. Distruzioni di questi ultimi decenni, di questi ultimi anni. Perpetrate non di rado nella quasi totale indifferenza. Contrastate più dal senso civico e dall’amore per le origini delle proprie terre di qualche cultore locale, che dalla macchina statale, dai suoi organi preposti. Fin troppo agevole richiamare distruzioni clamorose come quelle di Monte Cagnoletto, dove l’urbanizzazione dell’altura ha spazzato via la fitta presenza antica. Oppure per la statio, diremmo noi il luogo di sosta, al XVI miglio della via Appia antica sostituito da un impianto per la produzione della celebre porchetta di Ariccia. Oppure per le maestose strutture sul lato destro della via Appia antica, a valle del centro attuale, ridotte a poca cosa dalla costruzione di una carrozzeria.

Un patrimonio nel complesso “dismesso”. Abbandonato a sé stesso perché considerato da molti come un onere. Un problema, non prioritario, al quale dover attendere. Spesso un noioso intralcio ad operazioni più redditizie o comunque la cui utilità sembra più tangibile. Su queste terre che, nonostante le politiche da lungo tempo non contemplino una reale valorizzazione dei loro tesori, continuano a trasudare naturalmente Cultura, si guarda altrove. Si concentrano le già scarse risorse economiche su manifestazioni, occasioni di incontro, che nulla aggiungono. Che anche ai fini esclusivamente dell’accrescimento dei flussi turistici appaiono poco significative. Soprattutto avulse da qualsiasi progetto.

Colpevolmente gli amministratori di quei luoghi di antica grandezza non solo non valorizzano quanto la Storia gli ha consegnato, ma anzi sembrano volerli quasi nascondere. Non capendo che quel che molto spesso più interessa loro, richiamare persone, accrescere il proprio consenso, sarebbe più facile da raggiungere se mettessero in mostra quei monumenti che hanno quasi in uggia. Li rendessero parte vitale del centro urbano, del territorio. Elementi di rivitalizzazione piuttosto che di ostacolo. Capendo che la ricchezza si fa con i tanti e celebrati prodotti tipici di quelle magnifiche terre. Ma anche con i monumenti che ancora rimangono. Anche per non trasformare questi paesi alle porte di Roma come la Santa Trada di Cetto La Qualunque. Un luogo nel quale é normale realizzare nuove costruzioni su siti archeologici. Un luogo come tanti e quindi senza identità. Ricco solo delle sue tante illegalità.