Il disegno di legge presentato dal governo dovrebbe avere l’obiettivo di promuovere la crescita economica rendendo il mercato del lavoro più dinamico, eppure i policy maker e il dibattito pubblico si sono dimenticati di un fattore importante in una prospettiva di futuro, innovazione e, appunto, crescita: quello delle startup.
Sebbene l’occupazione in questo settore sia in costante espansione, la riforma tenderà a limitarla rendendo svantaggiosi fiscalmente i contratti temporanei e introducendo nuovi limiti alla loro adozione con il risultato di ridurre quella flessibilità che è condizione imprescindibile degli investimenti in startup.
I contratti a termine vengono penalizzati da una aliquota aggiuntiva dell’1,4 %, da una maggiore esposizione a impugnazione giudiziaria, da una più rigida disciplina in tema di rinnovo dei contratti, da nuovi obblighi di comunicazione e dalla stretta sulle Partite iva con introduzione di obblighi di conversione a contratto a tempo indeterminato.
I contratti temporanei sono insomma disincentivati ed è questo un ostacolo per le startup che non possono infatti che adottarli: il tasso di rischio di una startup è molto elevato e richiede un capitale inziale che non sarebbe mai così alto da rendere sostenibile l’assunzione dell’ulteriore rischio di licenziamenti con il conseguente pagamento di indennizzi che comporterebbe la scelta di contratti a tempo indeterminato, il tipo di contratti verso cui la riforma vuole “pungolare” (è un caso che gli americani chiamerebbero di “nudging”).
Si tratta pertanto di una pretesa lontana dalla realtà, incompatibile con le condizioni basilari dell’imprenditoria connessa a startup con alto tasso di tecnologia e innovazione. È prevedibile che verrà così compromessa in modo strutturale la competitività con gli altri Paesi (in primis Israele, Stati Uniti, Svezia, Finlandia, Cina, India, Brasile) in un settore strategico in cui l’inevitabile conseguente incentivo a delocalizzare produrrà ulteriore disoccupazione soprattutto giovanile: un costo opportunità per le prospettive della crescita che sembra non essere stato preso in considerazione dal governo.
Una svista non da poco se si pensa che ciò che non si vede è un intero settore che negli Stati Uniti ha trainato la crescita netta di posti di lavoro, come dimostra un report della Kauffman Foundation e che anche in Italia soltanto in Lombardia è previsto che nei primi tre mesi dell’anno saranno stati 9700 i posti di lavoro creati da startup (un terzo delle assunzioni previste in questo periodo) secondo la Camera di Commercio di Monza e Brianza.
Si tratta di numeri attuali e di una potenzialità per lo sviluppo futuro. Ma le potenzialità sono invisibili, così come i posti di lavoro che non verranno creati mai, e del resto i giovani aspiranti imprenditori non hanno la visibilità dei gruppi di pressione più influenti.
C’è la buona fede sì, ma le conseguenze non intenzionali potrebbero rendere la riforma ostile all’innovazione: la pianificazione – o il “nudging” in questo caso – ha sempre conseguenze indirette e distorsive, questa volta sulle startup e i processi di innovazione, la base proprio della crescita che si vorrebbe promuovere.
Così il governo dei “tecnici”, seppur in buona fede, persegue “idealmente” la “lotta alla precarietà” mostrando vicinanza più alla retorica politica che non alle realtà operative dell’imprenditoria, concordando un compromesso al ribasso (però si proclama finita l’epoca della concertazione) sulla flessibilità in uscita e promuovendo una maggiore rigidità all’ingresso con elementi persino peggiorativi: le imposte distruggono sempre ricchezza (reale e potenziale) mentre la regolamentazione introdotta dalla riforma impone una direzione che nel caso delle startup è opposta ai processi di innovazione che aprirebbero più opportunità di lavoro di quante ne possano creare nuove “rozze” tasse sui contratti di lavoro.
Come per il decreto sulle liberalizzazioni (che in realtà in molti settori ha introdotto più una revisione della pianificazione dell’offerta che non aperto il mercato), è difficile parlare di liberalizzazione del mercato del lavoro per una riforma che non aumenta in termini assoluti la libertà di impresa (gli aumenti di flessibilità in uscita e di rigidità all’ingresso si bilanciano) e non abbassa ma eleva la tassazione sul lavoro, primo fattore che limita la libertà d’impresa e la libertà economica di tutti i lavoratori.
I paesi con il più alto tasso d’innovazione (The Global Innovation Index) li ritroviamo anche nelle prime posizioni dell’indice delle libertà economiche.
L’innovazione va d’accordo con la libertà economica. La libertà è limitata dalle tasse. Le tasse non scendono se non si taglia la spesa pubblica.
* l’articolo è stato pubblicato sul sito Chicago-blog con il titolo “Riforma del lavoro. La buona fede e la cattiva vista (da lontano): il caso delle startup”