La terza rivoluzione industriale? Era al Fuori Salone ma è senza credito

La terza rivoluzione industriale? Era al Fuori Salone ma è senza credito

Quest’anno la settimana del design milanese ha visto una moltiplicazione sorprendente di mostre e installazioni sul tema del fare. Maker e artigiani un po’ dappertutto. Dalla mostra organizzata da Domus a palazzo Clerici (con un titolo esplicito: The Future in the Making) alla mostra degli autoproduttori nella Fabbrica del Vapore, dalla mostra di Tom Dixon al Museo della Scienza e della Tecnologia alle biciclette a scatto fisso costruite e riparate di fronte allo spazio Valcucine di Brera, il Fuorisalone ha rilanciato in modo diffuso e capillare il tema della produzione come snodo per ripensare il design e, perché no, la nostra economia tutta intera.

L’attenzione riservata a maker e artigiani lascia pochi dubbi. Non assistiamo semplicemente a una trasformazione stilistica o a un nuovo modo di comunicare il prodotto. Chi ha partecipato alla settimana milanese ha avuto la percezione che un’avanguardia di aziende consolidate così come di produttori indipendenti abbia deciso di intraprendere un cambiamento profondo nel modo in cui si organizza la creatività, in cui si produce e si parla al mercato. Al Fuorisalone, insomma, abbiamo avuto la possibilità di guardare da vicino un anticipo di ciò che abbiamo iniziato a chiamare la terza rivoluzione industriale.

Perché il fare è tornato a essere così importante? Perché abbiamo capito che fare aiuta a pensare e a creare. Aiuta a immaginare alternative altrimenti difficili da mettere a fuoco. E non basta: fare bene le cose conferisce agli oggetti quel supplemento di anima di cui hanno necessariamente bisogno per distinguersi dalla concorrenza.

Il Salone, in realtà, ha messo in evidenza due modi diversi di intendere il fare. Il primo guarda prima di tutto alle nuove tecnologie della produzione digitale. Chi scommette sul collegamento fra produzione e digitale punta sulle potenzialità delle stampanti 3D, sui laser cutter e sulle frese a controllo numerico per immaginare un nuovo rapporto fra domanda e offerta (queste tecnologie consentono la produzione di pezzi unici a costi relativamente contenuti sulla base delle richieste della domanda finale). In alcuni casi queste tecnologie potrebbero consentire addirittura un diffuso fai-da-te: potremo stampare i giocattoli dei nostri figli, i manici delle pentole che abbiamo bruciato e i pezzi di ricambio della lavatrice. Tutto questo è già alla nostra portata a condizione di voler capire come funziona una stampante 3D, le costruzioni Lego dei nostri figli e la lavatrice che abbiamo in casa.

La riscoperta del fare non passa solo per la tecnologia. Un gruppo consistente di imprese ha proposto a Milano una rivalutazione consapevole del lavoro artigiano. Nel centralissimo Corso Garibaldi un artigiano di Fritz Hansen cuciva a mano alcune delle sedie che hanno reso celebre il catalogo dell’azienda danese. Fritz Hansen ha voluto rendicontare live la cura e la passione con cui vengono assemblati e finiti i suoi prodotti; nella showroom a pochi metri di distanza, foto e video completavano il racconto.

Chi, come Fritz Hansen e molti altri, punta a rilanciare il valore del fatto a mano, sta scommettendo su una domanda (oggi in crescita) disposta a pagare qualcosa in più per accedere a oggetti diversi, unici, personalizzati, in grado di dare forma e consistenza a un orizzonte credibile di sostenibilità sociale. Oltre le macerie che ci hanno lasciato vent’anni di azzardo finanziario, una nuova cultura del lavoro.

Dobbiamo mettere le nostre fiches sulla tecnologia e sulle mani di maestri artigiani? Per dare risposte a riguardo, la settimana scorsa la Rinascente ha ospitato una competizione fra il designer-artista Dominic Wilcox, strenuo paladino della creatività e dell’abilità degli umani, e la stampante 3D Deep Pink “allenata” dai tecnici di Wefab. Compito assegnato: costruire un modello del Duomo di Milano. La vittoria è andata a Wilcox che ha completato il suo modello rigorosamente senza attrezzi.

C’è da immaginare che, a breve, di competizioni fra uomini e stampanti 3D ce ne saranno altre. In attesa di verdetti definitivi, è sensato ragionare fin da ora in termini di modelli ibridi. Già oggi la mescola fra analogico e digitale consente risultati sorprendenti. Su questo terreno la manifattura italiana non ha molti rivali. La gran parte delle piccole e medie imprese dei nostri distretti del mobile ha già imparato da tempo a mettere insieme macchine a controllo numerico e finiture artigianali. Con risultati più che rassicuranti, a dispetto di chi dava per finita la nostra tradizione manifatturiera.

Ciò che emerge dalle tante sperimentazioni presentate in settimana conferma un potenziale di creatività straordinario. Il problema oggi è come portare sul mercato questa forza creativa. Non è un problema da poco. Anzi. Tutto ciò che ruota attorno a questa nuova economia del fare ha bisogno di nuove strutture distributive, nuovi strumenti di comunicazione, nuove forme di accesso al credito. Se non cresce un mondo diverso intorno a questi progetti, i protagonisti di questa stagione creativa resteranno sempre senza soldi. Internet può fare molto, a condizione che nascano e si consolidino in fretta nuovi operatori capaci di raccontare e valorizzare un modo tutto nuovo di organizzare la manifattura. E’ su questo terreno che urge vedere all’opera start up “made in Italy” davvero innovative.

*docente di Economia aziendale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, autore di “Futuro Artigiano” pubblicato da Marsilio. A breve Micelli inizierà il suo blog su Linkiesta, “Avant craft”, dedicato proprio ai temi discussi in questo articolo e nel suo libro. 
 

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