(Carlo Lottieri insegna Filosofia del diritto e Filosofia delle scienze sociali alla Facoltà di Teologia di Lugano)
Alle spalle dell’antipolitica – piaccia oppure no – c’è un importante tradizione di pensiero e ci sono biblioteche che meriterebbero maggiore attenzione. Con questo non si vuol dire che i “pirati” tedeschi o i grillini italiani ne siano consapevoli, ma solo che il successo che stanno ottenendo poggia su ragioni magari a loro oscure, ma che nei secoli passati furono esplorate a più riprese da grandi figure della vicenda umana.
Il rigetto della politica non è necessariamente espressione di una volontà di sottrarsi alla società. Furono certo antipolitici molti mistici ed eremiti, persuasi che il governo della città sia una tra le più vane tra le vanità umane. Ma in genere il rifiuto della politica esprime innanzi tutto un’altra idea di comunità, che accantoni il ricorso alla forza e dia spazio alle logiche del consenso, dello scambio, del dialogo. E non bisogna mai scordarsi che per Sant’Agostino il primo fondatore di una città, il primo costruttore di una polis, fu l’omicida Caino, e che a lungo ai cristiani è stato rimproverato di non avere “senso dello Stato”: in poche parole, di porre altrove – in un Altrove migliore – la ragione della loro esistenza.
Ma non c’è soltanto molta parte dell’esperienza cristiana a giustificare quel misto di indifferenza e disgusto per le istituzioni di governo che oggi pervade la nostra società. Basta leggere cosa nel 1986 scriveva il teorico libertario Murray Rothbard a proposito di uno degli uomini che più hanno segnato la civiltà cinese.
Per Lao Tse l’individuo e la sua felicità erano la chiave e il fine della società. Se le istituzioni sociali ostacolavano l’espansione della persona e la sua felicità, allora dovevano essere ridimensionate e perfino abolite. Per l’individualista Lao Tse il potere governativo – con «le sue norme perfino più numerose dei peli di un bue» – era un immorale oppressore dell’individuo ed «era da temersi più delle bestie feroci».
Quando si parla di antipolitica, allora, non è davvero il caso di ricordare ogni volta l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, ma semmai di porre mente a quel testo formidabile della metà del sedicesimo che scrisse uno dei più raffinati poeti dell’epoca, Étienne de la Boétie (grande amico di Montaigne), che nel Contr’un – poi noto come Discorso sulla servitù volontaria e pubblicato in Italia da Liberilibri – ha espresso lo stupore senza limiti che un saggio avverte di fronte alla vista di uomini che comandano propri simili.
Esiste insomma nell’animo di tanti una mai sopita resistenza di fronte al ripetuto sforzo di “normalizzare” le relazioni di potere. Cambiano le culture, sorgono e crollano gli imperi, ma questo disamore per la violenza istituzionalizzata (editti, tributi, eserciti, spie) sembra periodicamente riemergere.
Quella americana, d’altra parte, è in larga misura una storia nutrita di antipolitica, se si considera che lo stesso Thomas Jefferson giunse ad affermare che il miglior governo è quello che governa meno, e che dopo di lui David Henry Thoreau – destinato a esercitare un’influenza rilevante su Gandhi – ne trarrà la conseguenza che il migliore tra tutti è dunque quello che non governa affatto.
Sempre in questa tradizione, Lysander Spooner non soltanto considerava nulla la Costituzione (quanti l’avevano firmata non potevano vincolare che loro stessi e ormai, per giunta, erano tutti morti), ma fece analisi molto acute sul voto. Ai suoi occhi ogni elezione è una decisione presa da ignoti, in ragione della segretezza del voto, che per giunta crea un potere irresponsabile: dato che un parlamentare agisce senza vincolo di mandato e quindi non deve rendere conto a nessuno di quanto fa. Ma nella vecchia Europa troviamo un’aperta miscredenza verso il culto secolare del Dio-Stato in autori tanto lontani: da Kierkegaard a Nietzsche, da Jünger a Gomez Davila (per il quale «man mano che cresce lo Stato, decresce l’individuo»).
Il fiume carsico del pensiero antipolitico si compone dunque di molti rivoli, è segnato da contrasti radicali, intreccia sensibilità lontane, ma certo rinvia a un comune rigetto del Leviatano. L’individuo antipolitico è tale non tanto perché è disgustato dal modo in cui il potere è esercitato, ma perché gli appare orribile l’esistenza stessa dei rapporto di dominio. È il potere di alcuni su altri che suscita l’anti-schiavismo radicale di Spooner, che quando avversa la schiavitù e la tassazione è persuaso di combattere la medesima battaglia.
È vero che da Rousseau a Fichte, da Hegel a Marx, da Gentile a Dewey, e poi Rawls, Habermas e molti altri, è lunga e ricca di importanti figure la lista dei cantori della politica, del suo primato, della sua centralità. L’idea hegeliana che la lettura del giornale quotidiano sia l’autentica preghiera dell’uomo moderno è scandalo per pochi e verità per molti. Ma non è detto che i sacerdoti della politique d’abord siano le guide migliori per uscire dal pantano in cui ci troviamo e porre le basi a un’esistenza autenticamente umana.
Se allora l’antipolitica odierna è probabilmente destinata a moltiplicare delusione e disincanto è perché – come già negli anni ruggenti dei palchi di “Milano Italia” allestiti da Gad Lerner – i nuovi attori non sono poi davvero nuovi nelle loro categorie, e spesso paiono voler mettere nuove imposizioni al posto delle vecchie. Forse non è così, ma si ha la sensazione che esista comunque una distanza significativa tra la domanda di antipolitica e l’offerta, rappresentata dai nuovi movimenti.
Nell’America di fine Settecento la Dichiarazione d’indipendenza annullò il potere della Corona inglese senza sostituirlo con altro: e invece oggi tutti parlano di nuove regole da aggiungere, altre ganasce da predisporre, ulteriori vincoli, barriere, normative.
Può darsi che l’antipolitica che abbiamo sotto gli occhi sia più parte del problema che della soluzione. Oppure è ancora una ribellione in cerca di un pensiero. Se è così, speriamo che questo incontro abbia luogo.