L’inerzia del governo Monti sulla voragine delle forniture sanitarie

L’inerzia del governo Monti sulla voragine delle forniture sanitarie

Fili di sutura e bisturi, vaccini e lastre, farmaci ospedalieri e cibo per i pazienti ricoverati; e poi elettricità, telefonia e combustibili, supporti informatici e cancelleria, detersivi e disinfettanti; e ancora servizi di pulizia, di trasporto, smaltimento rifiuti, lavanderia, polizze assicurative. 

La lista dei beni e dei servizi di cui ha bisogno la sanità italiana è davvero lunga. Altrettanto lunga è la cifra che serve per pagare le forniture sanitarie: 32.911.000.000 euro nel 2010. Di gran lunga la voce di spesa che, dall’inizio del 2001, ha registrato il più elevato tasso di crescita (8% annuo): un’esplosione incontrollata. Nella contabilità del Servizio sanitario nazionale (v. qui la Classificazione per voci di spesa), l’acquisto di beni e servizi è così diventato la voce più pesante (30% sul totale dei costi 2010), dopo il personale dipendente.

Governo fiacco. Ce n’è quanto basta perché su questo aspetto, che ricade nella competenza di aziende sanitarie locali e Regioni, si focalizzi l’attenzione del governo Monti. Però, dopo avere annunciato la revisione della spesa pubblica (spending review), alla fine il governo non sembra crederci fino in fondo, come emerge chiaramente da una recente intervista del ministro Piero Giarda alla Stampa. «Molte amministrazioni centrali e periferiche dello Stato non stanno rispettando i tagli di bilancio per acquisto di beni e servizi attuati con le manovre degli anni precedenti», e si indebitano, ammette comunque lo stesso Giarda. Se questo è vero per le amministrazioni statali e per le loro ramificazioni sul territorio, figurarsi per gli enti locali.

Risparmi possibili. Per limitarsi alla sanità, i beni e servizi acquistati sfiorano quotano 33 miliardi, quasi un terzo della spesa sanitaria pubblica. «Essendo una spesa ben identificata, quelle per le forniture sanitarie è una spesa governabile e riducibile – osserva Fabio Amatucci, professore dell’Università degli studi del Salento e ricercatore del Cergas, il centro di ricerche sulla sanità dell’Università Bocconi – Oggi ci sono ampie diseconomie a cui, in termini di politiche generali, si è cercato di rispondere attraverso processi di centralizzazione degli acquisti». In questo prima la Consip, la società controllata dal Tesoro alla quale è affidato il Programma di razionalizzazione degli acquisti pubblici, e poi le diverse centrali regionali degli acquisti hanno giocato un ruolo fondamentale.

Da sola, però, la centralizzazione degli acquisti non basta, anche se è il primo passo nella giusta direzione. Si possono ottenere risparmi per il 5-7%, in qualche caso anche del 20 per cento. «È semplicistico pensare che basti una centrale acquisti per ottenere risparmi significativi», aggiunge Amatucci. Sugli acquisti di beni non sanitari (benzina, elettricità, etc.) è più semplice, e in qualche caso si arriva a risparmiare il 20 per cento. Ma sui prodotti sanitari il discorso è più complesso, e per di più non esistono dati certi sui risparmi, visto che i confronti vengono fatti con riferimento a vecchie gare precedenti non centralizzate. Se ogni ospedale, o ogni reparto continua a ordinare il suo tipo di filo di sutura o di aghi, allora anche centralizzando non si ottiene, su ogni singolo prodotto, una massa critica sufficiente per risparmiare. 

Standardizzare. Il vero risparmio, spiegano gli esperti, si ha una riduzione della varietà di spesa. Che, però, non può essere imposto dall’alto. Specialmente in un campo dove ogni primario può legittimamente rifiutarsi di usare un certo tipo di prodotto (“questo filo non regge”, o “non mi assumo la responsabilità di impiantare questo stent coronarico”), e richiedere una procedura d’acquisto d’urgenza. E allora addio risparmi. Anzi, si rischia di vedere crescere i costi.

Il ruolo dei medici. Da questa strettoia si esce con un cambio culturale: vuol dire che i sanitari si devono mettere attorno a un tavolo concordare una soluzione ottimale sugli acquisti da fare. Il nodo più difficile da sciogliere è l’estrema articolazione del catalogo che può essere richiesto dagli specialisti. È facile aggregare i farmaci acquistati dagli ospedali, meno affrontare altre merceologie (aghi, fili, strumenti, protesi) perché ogni struttura sanitaria, ogni reparto ha le sue preferenze, e standardizzarle non è semplice.

Per migliorare il sistema di acquisti pubblici, Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, suggerisce di agire su quattro elementi: «Primo, l’aggregazione della domanda, che implica anche la standardizzazione; quindi, la programmazione degli acquisti, che richiede anche l’individuazione di un responsabile degli approvviggionamenti, cosa che non sempre c’è; terzo, il miglioramento della qualificazione tecnologica dei “buyer”, i compratori autorizzati: basti considerare che solo sulla Consip sono accreditati oltre 80mila punti ordinanti; quarto, la creazione di un sistema a rete fra Consip e le centrali di acquisto». Perciò, coinvolgere il personale è fondamentale. «La centralizzazione non si fa contro i sanitari e contro gli amministrativi – conclude Amatucci – I modelli che funzionano meglio sono Toscana ed Emilia Romagna,  ossia quelli dove c’è condivisione e partecipazione diffusa». Una ragione in più perché la riduzione dei costi delle forniture pubbliche, sanitarie e non solo, diventi la bandiera di un governo che promette di voler salvare l’Italia, e non resti un annuncio buono solo per le interviste.

 Twitter: @lorenzodilena

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