L’operoinomane “drogato di lirica” e l’arcitaliano Verdi

L’operoinomane “drogato di lirica” e l’arcitaliano Verdi

Verdi, si sa, ha fatto l’Italia. Dando al Risorgimento la sua colonna sonora di grandi cori patriottici e cabalette forsennate e «Viva Verdi» da urlare nei teatri e nelle piazze, più sintetici e meno pericolosi di «Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia». Però Verdi ha fatto l’Italia non solo nell’opera ma anche nella vita, in un percorso che è quello della borghesia italiana del Nord la quale, conquistata la preminenza sociale, vuole anche quella politica. Questo self-made-man replica nella sua biografia quella della Nazione. Cantore del Risorgimento? Musicista «con l’elmo in testa», come diceva Rossini, che aveva il segreto delle piccole frasi distruttrici? La realtà, come al solito, è più complessa. 

Quando, nel 1842, scrive Nabucco, la sua terza opera, Verdi non ha una coscienza politica: gli ebrei che cantano la patria sì bella e perduta sono gli ebrei della Bibbia e basta e, del resto, l’opera sedicente iperpatriottica è dedicata alla moglie Savoia dell’arciduca Ranieri d’Absburgo, viceré a Milano, quindi presunto oppressore delle genti lombardo- venete. Ciò non toglie che il «Va’, pensiero» diventi subito il vero inno nazionale italiano, una pagina talmente mitica che lo stesso Verdi, molti anni dopo, ci romanzerà sopra, raccontando di aver ricevuto senza entusiasmo il libretto del Nabucco (che gli arrivò in un periodo luttuoso, di grave crisi personale e professionale), di essere tornato Verdi arcitaliano a casa e di averlo buttato distrattamente da qualche parte: e il fascicolo si apre proprio su quelle parole, lui le legge, viene conquistato, si siede al pianoforte, inizia a scrivere, e il resto è noto. Quel coro, peraltro, non è che la parafrasi del salmo 137, Super flumina Babylonis, e ritornerà dopo un secolo (quasi) esatto, in un momento tragico della nostra storia, con Salvatore Quasimodo: Alle fronde dei salici.

Però nulla dimostra che Verdi volesse scrivere un’opera «italiana». Anche l’anno seguente, per I Lombardi alla Prima crociata, tratta da un micidiale poema di Tommaso Grossi, l’obiettivo è quello di replicare il successo di Nabucco più che di fare della retorica patriottica (e anche in questo caso la dedica è inequivocabile: a Maria Luigia, duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, insomma la sovrana di Verdi e, soprattutto, la figlia dell’imperatore d’Austria). Poi, certo, la frequentazione dei salotti milanesi forma la coscienza politica di Verdi. Nel 1848, è unitario e repubblicano, ma resta a Parigi per affari, mentre il suo librettista Francesco Maria Piave si batte sulle barricate di Milano. L’entusiasmo, però, c’è. Tanto che nel 1849 Verdi scrive per la Repubblica romana di Mazzini e Garibaldi l’unico suo titolo programmaticamente patriottico, risorgimentale a ventiquattro carati, La battaglia di Legnano. La delusione per il fallimento della «primavera dei popoli» sarà forte. Ma poi Verdi incontra Cavour, ne è conquistato, capisce che l’Italia o si fa con i Savoia o non si fa e, da democratico e repubblicano, diventa liberale e monarchico. Ha sempre fatto politica con le note, ora inizia a farla, fra mille ritrosie, anche in prima persona: deputato delle Province parmensi incaricato di portare a Torino il risultato (taroccato) del plebiscito di annessione; deputato di Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza, al primo Parlamento nazionale e come tale scomunicato latae sententiae per aver votato per Roma capitale; senatore del Regno. Finirà ultraconservatore, approvando le cannonate di Bava Beccaris. Le ultime note che scrive sono un tentativo di mettere in musica la preghiera scritta dalla regina Margherita dopo l’assassinio di Umberto I. Ma questo agrario che si arrabbiava quando i suoi braccianti scioperavano era lo stesso che costruiva per loro, a sue spese, un ospedale intero o che definiva «la mia opera più bella» la Casa di riposo per musicisti, regalata «chiavi in mano» a Milano.

Però è curioso. Mentre si fa l’Italia, Verdi pare cantarla sempre meno. Il 1859, l’anno della decisiva Seconda guerra d’indipendenza, per lui è quello di Un ballo in maschera, certamente la meno «politica», men che meno patriottica, delle sue opere. In realtà, anche in quegli anni Verdi continua a fare politica. Solo che si concentra sulla critica sociale. Prendete Traviata: tecnicamente, di politico non c’è nulla; ma è uno dei più radicali, violenti, decisi attacchi all’ipocrisia della società borghese mai partoriti dall’Ottocento. O Rigoletto: oggi è difficile rendersene conto nelle messinscene «tradizionali» che tanto piacciono al pubblico italiano; in realtà si trattava di un’opera fortemente provocatoria, di un pugno nello stomaco ai perbenismi sociali: soggetto «di una ributtante immoralità e oscena trivialità», per il censore austriaco di Venezia, peraltro assai più tollerante di quello degli altri Stati italiani (e tuttavia, non è curioso che oggi non esista in Italia attività sociale e di spettacolo più giudiziosa e comme il faut che andare all’opera, quando Verdi passò l’intera vita a litigare con i censori, che lo consideravano immorale e scandaloso? Vorremo prima o poi – meglio prima che poi – ridare finalmente alle sue opere il loro valore eversivo?).

È significativo che Verdi ricominci a parlare di politica in senso stretto a Italia più o meno fatta. Il Don Carlos è anche una specie di trattato sui rapporti fra Stato e Chiesa nell’anno di Mentana, in un momento in cui la questione romana avvelena la vita della nuova Nazione e i suoi rapporti con la Francia. Se ne accorse l’imperatrice Eugenia, la moglie di Napoleone III, bigotta ma tutt’altro che sprovveduta come si è spesso scritto, che alla Prima, all’Opéra di Parigi, si alzò ostentatamente e se ne andò quando sulla scena Filippo II ammonì il Grande Inquisitore: «Tais-toi, prêtre!». E, anni dopo, riscrivendo il Simon Boccanegra con Boito, Verdi inserirà la scena del Consiglio, cioè il più accorato, alto, toccante appello alla concordia civile e alla solidarietà politica fra gli italiani, destinato a restare deluso come tutte le esortazioni a un’Italia migliore, o almeno più decente.

Verdi, infatti, è stato anche questo: un grande antropologo dell’Italia, un grande raccontatore di vizi e virtù, figure e figuri, «tipi» e costanti nazionali. Uno degli intellettuali che ci hanno davvero raccontati per come siamo e non per come dovremmo essere, con uno sguardo che si direbbe spietato e che non rimane meno lucido perché appassionato. In questo, Verdi è in piccola ma scelta compagnia, insieme al Leopardi che non fanno leggere a scuola, a Gramsci, a Fellini. Non fatevi ingannare dal fatto che i suoi eroi siano vestiti da antichi egizi o da spagnoli del Cinquecento o da scozzesi del Medioevo. Sono solo i travestimenti, imposti dalle convenzioni dell’epoca, per l’unico vero soggetto delle opere di Verdi: gli italiani. Di ieri, di oggi e, si suppone, anche di domani. Del resto, quando volle mettere la sua Traviata in costume contemporaneo, non glielo lasciarono fare (però se oggi un regista fa lo stesso, e toglie a Violetta la crinolina per metterla in minigonna, subito le solite cariatidi iniziano a stracciarsi le vesti e a strapparsi i capelli e a rompere le palle per leso Verdi…). Questo non vuol dire che il valore della sua opera non sia universale. Altrimenti non continuerebbe a sedurre i pubblici del mondo intero. Ma significa che, come tutti gli artisti, e in particolare quegli artisti sommamente «politici» che sono gli autori teatrali, Verdi partiva da ciò che aveva intorno: dalle passioni, dai temi, dalle battaglie del suo tempo e della sua gente. Il teatro, appunto.

Chi parla di Verdi come di un «grande musicista» non ha capito nulla. Non perché Verdi non lo sia, per carità. Ma perché è qualcosa di diverso, e forse di più. È uno dei massimi drammaturghi che la cultura occidentale abbia conosciuto. Dire che è un «grande musicista» è come dire che Shakespeare è un «grande poeta»: è vero, ma non basta. Verdi non è solo la musica, è anche il teatro. E, poiché il teatro è nato per discutere – altrimenti non ci sarebbe stato bisogno, duemilacinquecento anni fa ad Atene, di affiancare al Coro il Personaggio –, il suo teatro è discussione, dibattito, contrasto di idee: politica, appunto. Non tutta la musica di Verdi è «bella», concesso e non dato che questo voglia dire qualcosa. Ma è tutta musica che ha un senso in rapporto al teatro. E lì anche musica «brutta», o banale, acquista un altro valore, una necessità. 

Però, se Verdi ha fatto l’Italia, l’Italia ha fatto Verdi. Perché il nostro operista ottimo massimo non è nato per caso, ma dentro una tradizione e una passione arcitaliane che non iniziano né finiscono con lui. Il Paese del melodramma: piaccia o non piaccia, questo siamo (o forse siamo stati? Saremo, pare improbabile). Se in Italia la Nazione è venuta prima dello Stato, la Nazione è anche l’invenzione di un’arte che è la più italiana mai concepita. E che resta, quattrocento anni dopo, il made in Italy più esportato. Lingua compresa, sicché l’italiano che si ascolta di più nel mondo è quello di Romani, di Piave e di Giacosa & Illica. Ovunque, il melodramma replica il miracolo che ha compiuto per secoli in Italia, un miracolo artistico, ma anche sociale, che ha eguali, credo, soltanto nella Grecia classica e nell’Inghilterra elisabettiana: quello di un’arte nata elitaria e cortigiana, raffinatissima e complessa, costosa e «difficile », insomma intellettuale, che però, misteriosamente, riesce a parlare a tutti, sfondando ogni barriera di lingua, di cultura e di estrazione sociale. In questo, molto più che nel Risorgimento, è la grandezza anche patriottica di Verdi. «Pianse e amò per tutti» c’è scritto sulla sua tomba, nel cortile della Casa di riposo. La frase di d’Annunzio è senz’altro retorica. Però è vera. © Arnoldo Mondadori Editore Spa

* Alberto Mattioli, è corrispondente da Parigi de La Stampa. Questo articolo è il quattordicesimo capitolo del suo nuovo libro Anche Stasera. Come l’opera ti cambia la vita, 17,50 euro, Mondadori

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