Davvero dalla spending review sarebbe illogico attendersi interventi di riduzione della spesa pubblica sufficientemente incisivi da consentire anche una riduzione della pressione fiscale? Secondo Piero Giarda, che della spending review è il dominus incaricato, la risposta è affermatIva. Perché?
Perché già sono state adottate misure incisive che hanno consentito la stabilizzazione della spesa pubblica sui livelli del 2009 fino a tutto il 2013 e tutto quello che ancora può essere fatto, senza mettere in discussione anche servizi pubblici essenziali come la scuola, la sanità e la sicurezza, riguarderebbe al più qualche razionalizzazione interna agli apparati dello Stato, per consolidare ulteriormente il contenimento della spesa e, conseguentemente, il raggiungimento del pareggio di bilancio. Come a dire: sprechi, sperperi e inefficienze non esistono e, se esistono, sono poca cosa. Il livello cui è stata stabilizzata la spesa pubblica al netto degli interessi passivi si aggira in un intorno di 722 miliardi di euro. Nell’anno 2000 erano 475. Se proiettiamo questa somma sul 2011, aggiornandola con l’inflazione, fa 598 miliardi di euro: esattamente 124 miliardi di euro in meno della spesa che invece ci ritroviamo.
Tra il 2000 e il 2006 la spesa pubblica è cresciuta in termini reali del 21,22%: una follia che assume i connotati della beffa, se si considera che in quegli anni governarono forze che, ieri come oggi, si presentano al proprio elettorato come liberiste e antistataliste. A partire dal 2006, la folle corsa della spesa pubblica è stata arrestata da entrambi i governi politici che si sono da allora succeduti e dall’attuale governo tecnico. Arrestata, ma non riassorbita. Se la perdurante crisi e la smisurata crescita della pressione fiscale fanno regredire i consumi e la produzione del Paese sui livelli di oltre dieci anni fa, perché non dovrebbe accadere altrettanto per la spesa pubblica dello Stato?
Qualcuno ha la sensazione che il livello dei servizi e della protezione sociale sia oggi sensibilmente superiore a quello che c’era nel 2000, o per lo meno lo sia in misura proporzionale ai 124 miliardi di euro in più di spesa che ci troviamo, rispetto alla proiezione della spesa che c’era nel 2000? Come si fa a non ritenere che, senza toccare il livello delle prestazioni, sia possibile recuperarne almeno la metà, pari, guarda caso, a quei quattro punti di Pil che riporterebbero per l’appunto il rapporto tra spesa al netto degli interessi e Pil sui medesimi livelli dell’anno 2000? Con 60 miliardi di euro, si potrebbe scongiurare l’aumento di due punti percentuali dell’Iva (16 miliardi), abolire integralmente l’Irap per tutti gli operatori del settore prIvato (25 miliardi di euro) e ne avanzerebbero per interventi ulteriori sui redditi di lavoro.
È chiaro che, per raggiungere questi numeri, servirebbe una radicale riforma dello Stato e del pubblico impiego, oltre che una seria revisione dei trattamenti pensionistici più elevati, con riguardo a quelli che dovessero palesare una assoluta sproporzione tra contributi versati e trattamenti erogati. Sono scelte inevitabili, quanto sorprendentemente poco considerate da un governo che pare prediligere nettamente gli interventi che riguardano il settore privato a quello pubblico (basti pensare a liberalizzazioni e riforma del lavoro con esclusione del pubblico impiego) e che si ingegna assai più nel contrastare l’evasione fiscale dei cittadini, di quanto non faccia contro la corruzione dei politici e dei dirigenti pubblici.
Di fronte al Paese che retrocede, lo Stato non può pensare di limitarsi a non avanzare addirittura oltre dove già si trova. Stato e Paese devono rimanere compatti e allineati, quando si avanza e quando si arretra. Nei momenti difficili, sta tutta qui la differenza tra una ponderata ritirata strategica momentanea e una disfatta tanto più drammatica e irrecuperabile, quanto più a lungo ostinatamente rinviata.