Milano brucia, così la ‘ndrangheta sfida il Comune

Milano brucia, così la 'ndrangheta sfida il Comune

Centotrenta incendi dolosi e settanta esplosioni negli ultimi mesi. Il fuoco della criminalità organizzata avvolge Milano. La città brucia, come il centro sportivo “Ripamonti” di via Iseo, ad Affori, dato alle fiamme nell’ottobre 2011 dopo la chiusura del Prefetto per «infiltrazioni mafiose». A questo fatto di cronaca è ispirato Fuego, il nuovo e-book firmato da Giuseppe Catozzella per la collana Zoom di Feltrinelli. Dopo il successo di Alveare, che descriveva l’espansione della ‘ndrangheta in Lombardia, lo scrittore trentaseienne torna con dieci pagine digitali per raccontare, attraverso un unico episodio, le vetrine sventrate, le saracinesche annerite, i marciapiedi saltati di centinaia di ristoranti, bar, pub, negozi di Milano e provincia. «Serve una reazione delle istituzioni», dice Catozzella, «i milanesi ancora fanno fatica a dire che una macchina carbonizzata possa essere opera della ‘ndrangheta».

Perché dedicare un libro all’incendio doloso del centro sportivo di via Iseo?
É fondamentale richiamare l’attenzione sul primo atto di sfida aperta della criminalità organizzata contro l’amministrazione comunale milanese, che aveva estromesso la dirigenza del centro sportivo in mano alla famiglia Flachi. A marzo il Prefetto aveva chiuso il centro sportivo per infiltrazioni mafiose. Ad aprile, poi, l’operazione Redux-Caposaldo della Procura di Milano aveva colpito gli esponenti della famiglia Flachi, che sarebbero stati beccati a chiedere il pizzo ai paninari e a controllare addirittura il servizio di trasporto Tnt. Dopo una informativa della Prefettura che parlava di «controllo totale» dei Flachi sulla struttura, nel luglio 2011 la convenzione stipulata dal Comune con la società che gestiva il centro è stata revocata. E allora qualcuno ha pensato di ridurre in cenere la palestra.

Come si può definire Fuego?
È un racconto. Ho spinto di più sulla letteratura-narrativa, in chiave surreale. C’è un barbone sul tetto di una struttura in fiamme. Ai poliziotti che lo portano giù dice cose apparentemente strane ma di grande monito contro l’umanità. Ho riletto il fatto di cronaca dell’incendio alla luce della letteratura. Sono partito da un fatto vero, cercando di renderlo più universale. L’incendio di via Iseo diventa un incendio generale che simboleggia la violenza generale della mafia.

La fiaccolata di cittadini e istituzioni dopo il rogo della palestra è stato un segnale importante.
Quella manifestazione ha rappresentato un segnale molto importante per Milano. Non siamo abituati a fiaccolate per la legalità qui al Nord. Sono immagini che solitamente vediamo al meridione. Le persone della zona scese in strada hanno mostrato di voler reagire.

A proposito di reazioni, la Commissione e il Comitato antimafia del Comune di Milano rappresentano un fatto positivo?
Al momento posso solo dire che lo spero vivamente. A parte il lungo tempo impiegato per arrivare alla creazione dei due organismi, ad oggi ancora non hanno fatto un granché. Qualche giorno fa, incontrando sia il presidente del Comitato Nando Dalla Chiesa e che quello della Commissione David Gentili, ho chiesto esplicitamente che intenzioni avessero sulla riqualifica del centro sportivo di via Iseo. Mi è stato risposto: «Il Comune non ha i soldi per metterlo a posto». Non c’è un piano per ricostruirlo. La struttura è tuttora un enorme monumento a cielo aperto alla violenza della mafia. È lì davanti a tutti, annerito, con i vetri rotti. A vederlo, sembra che abbiano vinto loro.

A Milano negli ultimi mesi ci sono stati 130 incendi dolosi e 70 esplosioni. Quando la ‘ndrangheta esce dal silenzio, appicca incendi e fa esplodere ordigni è perché vuole comunicare qualcosa. Cosa sta accadendo?
Questi attentati sono una reazione della criminalità alle istituzioni. L’instaurazione della Commissione antimafia, ma anche la stessa campagna elettorale di Pisapia incentrata sulla lotta alla criminalità, hanno provocato una reazione delle cosche. Fanno veder che loro ci sono e che controllano il territorio. A Paderno Dugnano qualche giorno fa è stato gambizzato un imprenditore, a Bresso i colpi di pistola contro le vetrine sono ormai una realtà, a Cormano l’altro giorno è stata fatta esplodere la vetrina di una banca. Si sento i padroni del territorio. Serve una reazione.

Eppure una reazione della magistratura c’è stata. L’indagine «Infinito» nel luglio 2010 ha portato a più di 300 arresti.
La risposta della magistratura è stata molto forte. La Procura antimafia di Milano sta facendo un lavoro eccellente. Ora serve una risposta delle istituzioni milanesi. Le due cose devono andare di pari passo per far emergere la consapevolezza della presenza della criminalità anche nei cittadini, per far venire fuori un movimento collettivo.

Qual è la percezione dei milanesi sulla presenza del fenomeno mafioso a Milano?
Non c’è una percezione piena. La gente fa ancora fatica a dire che una macchina carbonizzata sia opera della ‘ndrangheta. Certo, se ne sta parlando molto e questo aiuta. Ma c’è ancora tanto da fare.

Meno di una settimana fa, nel processo per l’uccisione della testimone di giustizia Lea Garofalo la prima Corte d’Assise di Milano ha condannato sei persone all’ergastolo in primo grado. Soddisfatto?
Certo, i sei ergastoli fanno piacere. Ma mi sarebbe anche piaciuto che ci fosse stata anche una pena per associazione mafiosa. I Cosco sono una famiglia di ‘ndrangheta che si è fatta strada da Petilia Policastro, in provincia di Crotone, fino a Milano. Lea Garofalo è stata uccisa e sciolta nell’acido dopo aver testimoniato contro di loro. Il fatto che il reato di associazione mafiosa non compaia nella sentenza è certamente un messaggio negativo.

Mai ricevuto minacce o ritorsioni per il suo lavoro?
Programmaticamente e provocatoriamente non è una cosa che, sin dall’inizio, mi interessava comunicare al pubblico. Non credo sia importante. Certo, ci sono stati diversi episodi di minaccia che ho subito comunicato a chi di dovere. È normale per chi si occupa di questi temi.

I casi di giornalisti o scrittori minacciati dalla criminalità organizzata sono tanti. Perché non creare un collegamento che vi renda meno attacabili?
È proprio quello che avevo chiesto lo scorso giugno a tutti gli scrittori e giornalisti che si occupano di criminalità organizzata. Avevo chiesto di rinunciare alle firme per essere. Ho mandato questo appello ai giornali e anche privatamente. Ma le mie parole sono rimaste inascoltate.

Negli scaffali delle librerie si vedono molti libri che parlano di mafia, ‘ndrangheta e camorra. E spesso sono anche libri di successo. Un segnale positivo?
Se vuoi parlare del nostro Paese, da Nord a Sud, non puoi fare a meno di parlare di mafia, dall’economia alla politica. Poi c’è stato il fenomeno di Gomorra di Roberto Saviano, che è andato molto bene. È positivo che siano tanti libri sulla criminalità che vendono così tanto. Più se ne parla, meglio è. L’importante è far seguire le azioni alle parole. Sono tematiche che mettono in campo anche l’etica personale. Non puoi dire una cosa e poi comportarti nel modo opposto.

Cosa significa vivere eticamente l’antimafia?
Significa avere un comportamento conseguente con quello che dico. Significa collaborare con le associazioni, come “Libera” o “Ammazzateci tutti”. Significa partecipare a incontri pubblici, che per me sono importantissimi. Nella vita quotidiana, significa evitare ad esempio di comprare in bar o negozi che sai che appartengono a una certa famiglia mafiosa. La legalità è prima di tutto uno stile di vita.