Ha scelto di spiegare la realtà con l’obiettivo della sua macchina fotografica. Paolo Woods, uno dei più noti fotografi al mondo, ha una storia tutta da raccontare. E il suo accento, un mix di inflessioni inglesi, francesi e tedesche, lo conferma. Cresciuto in Italia, ha vissuto a Parigi e da poco si è stabilito ad Haiti con la sua compagna. A 41 anni, è appena diventato papà. Due giorni fa, ad Amsterdam, ha ricevuto il suo secondo World press photo: un terzo posto nella sezione “Daily Life”, ottenuto con lo scatto Radio Haiti, che racconta la diffusione capillare della radio tra gli abitanti dell’isola caraibica. «Giornalisti e fotografi che vanno ad Haiti tendono a tornare con storie preconfezionate sulla povertà del posto», dice, «io ho preferito fare il lavoro del medico legale che disseziona un corpo, in questo caso vivo, per cercare di capire come funziona».
Origini canadesi, tedesche e italiane. E alla fine ha scelto di stabilirsi ad Haiti. Perché?
Avevo voglia di vivere nel posto in cui lavoro. Così mi sono trasferito a Les Cayes. Di Haiti si ha sempre l’immagine di uno Stato povero, fallito. La maggior parte dei giornalisti e dei fotografi arriva qui con un’idea precotta, che viene scaldata al sole e poi la riportata indietro. Certo, è un posto povero con molti problemi, aggravati dagli uragani e dal terremoto del 2010, ma non è solo questo. Haiti è un Paese bellissimo. È stato l’unico Paese dell’America Latina a liberarsi da solo dalla colonizzazione. E ha molte altre facce da raccontare.
Quali facce racconta il suo reportage su Haiti?
Odio le storie preconfezionate dense di stereotipi. Io ho preferito fare il lavoro del medico legale che disseziona un corpo, in questo caso vivo, per cercare di capire come funziona. Amo i progetti lenti e lunghi e tendo a diventare ossessivo su un luogo. Così ho scoperto che non ci sono solo haitiani poveri, ma anche tanti ricchi imprenditori. Li ho fotografati, cercando di capire quale sia il ruolo delle élite nella vita di tutti i giorni e nella ricostruzione dopo il terremoto del 2010. Ho approfondito poi il rapporto tra le religioni principali dell’isola e il modo in cui funziona la comunicazione, scoprendo la centralità della radio.
Quella radio che è protagonista nello scatto Radio Haiti, vincitore del terzo premio della sezione “Daily Life” del World press photo 2012.
Sì. Visitando le campagne haitiane, mi sono reso conto che, nonostante l’analfabetismo diffuso, le persone erano dotate comunque di una certa cultura. E questo grazie alla radio. Ad Haiti solo il 25% della popolazione ha accesso all’energia elettrica e più del 50% è analfabeta. Che significa che la maggior parte della popolazione non legge i giornali, non guarda la tv e non naviga in Internet. Al contrario, però, il 97% degli haitiani ascolta la radio. In tutti i modi possibili: quelle a transistor, con i telefoni cellulari e ci sono anche le radio a energia solare. In qualsiasi negozio si entri, c’è sempre la radio accesa e in giro si vedono molte persone con gli auricolari alle orecchie.
Ma, come emerge dal suo lavoro, gli haitiani non si limitano a essere solo radioascoltatori, fanno anche la radio.
Sì, la popolazione ha cominciato anche a fare la radio. Non ci vogliono enormi capitali e le operazioni necessarie sono relativamente semplici. Bastano un trasmettitore, un mixer, un’antenna, un generatore e una stanza di pochi metri quadrati. Direi che con un paio di migliaia di dollari si mette su una radio. Ad Haiti non c’è un monopolio statale delle frequenze radiotelevisive. Basta solo registrare la stazione in un elenco, ma alcune emittenti non fanno neanche quello e restano illegali. Diversi piccoli gruppi hanno creato la propria emittente. Ce ne sono centinaia in tutta l’isola. Solo a Les Cayes, dove io vivo, su una popolazione di meno di 60 mila abitanti ci sono più di 30 radio. Una situazione inimmaginabile in Italia. Ogni radio ha la sua identità sociale, politica o religiosa. Gli speaker sono giornalisti, politici, attivisti delle comunità, pastori vodou, studenti, suore, preti.
Com’è nata Radio Haiti, la foto premiata dal World press photo 2012?
La suora ritratta, Melianise Gabreus, è una vera e propria star della emittente locale Radio Men Kontre. Quando ci siamo incontrati, all’inizio non voleva essere fotografata, era molto timida. Dopo aver ricevuto la notizia del premio, l’ho ricontattata ed era molto contenta. La cosa simpatica è che mi hanno telefonato da una rivista religiosa francese per dirmi che l’immagine dell’ultima cena che si vede nella parte alta della foto, appesa sul muro dello studio radiofonico, era stata pubblicata da loro molti anni prima ed erano entusiasti che fosse finita nello studio di una radio haitiana.
Nel 2004, con l’attuale vicedirettore di Le Monde Serge Michel, ha pubblicato American Chaos, un lungo reportage sulle due guerre americane in Afghanistan e Iraq. Che esperienza è stata visitare questi luoghi di conflitto?
È stata una esperienza intensa. Ho cercato di lavorare dove non c’erano altri giornalisti e fotografi. Non voglio lavorare sull’all news, ma sulla lentezza. Così con Serge Michel siamo stati due volte in Afghanistan, nella primavera del 2002 e poi di nuovo nel 2003, e due volte in Iraq nel 2004. Da questi viaggi è venuto fuori un reportage a puntate. In Afghanistan abbiamo fatto lo stesso viaggio per vedere se la situazione fosse cambiata a un anno di distanza. Stessa cosa con l’Iraq. Siamo andati lì per capire se la «mission accomplished» fosse vera o no, per comprendere le problematiche della pacificazione. E abbiamo scoperto che, sconfitti i talebani e abbattuto Saddam Hussein, erano invece emersi altri problemi.
Uno sguardo diverso per raccontare luoghi ed eventi. Come quello che ha usato per spiegare un continente complesso come quello africano, protagonista dei libri Un monde de Brut e Cinafrica.
Nel 2003 con Serge Michel abbiamo pubblicato il libro Un monde de Brut (A Crude World), frutto di un viaggio nel corso del quale abbiamo visitato 12 Paesi, di cui alcuni africani, alla ricerca della storia del petrolio. Quello che più ci stupiva è che sull’Africa esisteva solo un giornalismo di due categorie: quello alla National Geographic, che fa vedere i meravigliosi guerrieri Masai o cose simili, o quello che mostra solo la miseria assoluta, i bambini con la pancia gonfia che muoiono di fame. C’era tutta un’Africa in mezzo che non veniva raccontata. In questo pezzo d’Africa, molte cose stavano cambiando anche grazie all’arrivo dei cinesi. Questo cambiamento veniva stigmatizzato come “pericolo giallo”, invece si trattava di un fenomeno misto con opportunità interessantissime, che abbiamo raccontato in Cinafrica. Gli africani finalmente venivano trattati come partner economici e non come colonizzati. Con Serge, abbiamo visitato tredici Paesi africani per raccontare l’arrivo dei cinesi, che erano un po’ come i pionieri irlandesi. Hanno aperto ristoranti, attività di export di cotone, hanno investito nelle risorse minerarie e nella costruzione di strade e ponti. Così piccoli imprenditori delle campagne cinesi e contadini sono diventati ricchi, mostrando una grande etica del lavoro.
Ha lavorato spesso con il giornalista Serge Michel. Crede che da sole le immagini non siano in grado di spiegare la realtà?
No, esiste una sinergia tra linguaggio visivo e verbale. È importante unire il testo con le immagini e viceversa. Non c’è una cosa che guida l’altra. Entrambi hanno una potenza espressiva in grado di raggiungere un pubblico molto ampio. Io e Serge ragioniamo insieme e lavoriamo in parallelo. Non facciamo come alcuni che scrivono il testo e poi chiedono al fotografo di scattare le foto.
Molte delle sue foto sono in posa. Non crede di modificare la realtà così facendo?
Non credo al mito del fotografo invisibile. Come fa a essere invisibile un bianco in Burkina Faso o uno che tira fuori una macchina fotografica da cinque chili in Iran? Io amo interagire con la gente, parlare, spiegare cosa faccio. E c’è una sorta di compensazione della conoscenza: imparo molto dalle persone che fotografo.
Qual è il segreto di una buona foto? È più importante fare attenzione agli aspetti tecnici o saper scegliere il soggetto?
Direi entrambe le cose. Per scrivere serve saper coniugare i verbi, ma anche sapere di cosa si sta parlando. La parte tecnica è un utensile, è qualcosa che usiamo, non un fine in sé.
Qual è la foto alla quale è più affezionato?
È una domanda difficile, certo non sarebbe una delle prime che ho fatto. Ho 41 anni e vivo nella fotografia da quando ne avevo 17. Il primo documentario l’ho fatto a 30 anni. Prima lavoravo nel mondo della moda e dell’arte. Ma poi ho sentito la necessità di avere un pubblico più largo. Se dovessi scegliere dei lavori, direi il primo reportage in Kosovo nel 1999 e poi quello fatto nello stesso anno in Iran.