Abbiamo ripetuto un po’ tutti e sino alla nausea che questo governo, se vuole evitare di ripetere i drammatici errori compiuti da quelli che gestirono il paese dopo la crisi del 1992, deve decidersi di porre mano a sostanziali tagli della spesa pubblica. Mario Monti e la mezza dozzina o più di professori che lo coadiuvano non possono continuare a pensare, come sembrano invece fare, che a risolvere i problemi del paese siano sufficienti gli aumenti d’imposte che il loro intervento, combinato con quelli del precedente governo Berlusconi, ha prodotto e l’ambigua riforma della legislazione sul licenziamento dei lavoratori dipendenti privati, ancora tutta da approvare. Tutti concordano che occorra fare altro e che, fra questo altro, il primo posto in classifica spetti alla riduzione della spesa pubblica.
Bene, andiamo avanti e vediamo allora in cosa potrebbe consistere e come potrebbe materializzarsi una reale riduzione della spesa pubblica italiana. Siccome il discorso rischia di farsi largo (occupando sia questo che il mio prossimo editoriale) a beneficio del lettore frettoloso inizio dalle conclusioni.
- Una riduzione della spesa pubblica è possibile se e solo se si toccano alcuni mostri sacri che sono rimasti intoccati sino ad ora non per caso ma perché definiscono le colonne portanti dell’equilibrio socio-politico che, indipendentemente dal colore dei governi, governa il paese da molti decenni. Poiché è questo assetto che ci sta spingendo verso il declino la scelta non è semplice ma almeno è chiara.
- I mostri sacri consistono in: vendita di parti ingenti del patrimonio mobiliare ed immobiliare pubblico al fine di poter tagliare l’1-2% di PIL dalla spesa per interessi; riduzione a livelli spagnoli dei costi della politica e della burocrazia pubblica; riduzione del deficit fiscale del Centro-Sud a livelli tedeschi; ulteriore riduzione, pari a circa un 10%, della spesa totale per pensioni; privatizzazione del rapporto lavorativo pubblico ed adozione generalizzata dello spoil system.
- Misure di questo tipo sono impossibili con questo parlamento e questo governo, quindi per ora scordiamocele. Sono possibili solo se si forma nel paese un’aggregazione politico-sociale nuova, capace di catalizzare su un programma elettorale di rinascita socio-economica la maggioranza degli elettori, specialmente quelli giovani i quali sono sempre di più le vere ed innocenti vittime del declino nazionale.
A queste conclusioni arrivo sulla base di un ragionamento che parte da una osservazione banale: il nostro declino è causato anzitutto dalla composizione della spesa, dalla straordinaria inefficienza dell’apparato pubblico at large e dalla tassazione predatoria che colpisce il settore privato produttivo. Tutto il resto, dall’articolo 18 alla natura asfittica del capitalismo italiano, è vero ma di secondo ordine. Poiché la tassazione è dovuta al livello della spesa e poiché la “soluzione evasione” è falsa – le attività sommerse permettono al meglio miserabile sopravvivenza, non crescita: per questo l’evasione va combattuta, non per far cassa – ne segue che il declino economico italiano è causato interamente dalla spesa pubblica. Dal suo livello, dalla sua composizione e dal suo utilizzo. L’unica alternativa ad attaccare, lungo queste tre dimensioni, la spesa pubblica consiste nell’accettazione stoica del declino nazionale, la cui velocità può certamente essere ridotta (senza invertirne la direzione) attraverso operazioni di finanza straordinaria quali quelle che il sempre lucido Oscar Giannino ha suggerito, gettando metaforicamente la spugna, o con gli ulteriori inasprimenti fiscali che, a mio umile avviso, questo governo “continuista” ci presenterà dopo l’estate.
Chiediamoci, anzitutto, se sia possibile tagliare i livelli assoluti di spesa o se, nel farlo, non si corra il rischio di aggravare la recessione. A questo stolto argomento – siccome l’alternativa ai tagli di spesa consiste in aumenti dell’imposizione, l’argomento è stolto perché, ammesso e non concesso che i tagli di spesa siano recessivi nel breve periodo, essi almeno favoriscono la crescita nel medio-lungo, mentre gli aumenti di tassazione sono recessivi nel breve e dannosi per la crescita nel medio-lungo – si risponde osservando che, tanto per dire, il Regno Unito e l’Irlanda, i quali hanno tagliato la spesa pubblica in modo drastico negli anni recenti, non stanno soffrendo una recessione peggiore della nostra, anzi. Ed aggiungendo pure che, nella Spagna le cui difficoltà appaiono più simili alle nostre che altrove, il governo di Mariano Rajoy sta tagliando il livello della spesa pubblica, durante il 2012, di ben l’1,7% del PIL con una riduzione media della spesa dei ministeri rispetto al 2011 pari al 17%. Avete letto giusto: -17%, ossia da circa 79 a 65 miliardi di euro con tagli vertiginosi in alcuni casi. Il bilancio del ministero spagnolo degli affari esteri, che era di 2,65 miliardi di euro nel 2011, è di 1,20 miliardi quest’anno: -55 per cento! E nonostante tagli così drastici ed immediati (resi necessari anche dal fatto che il precedente governo, affetto da un’irresponsabilità elettorale degna solo di Berlusconi, Tremonti e Bossi messi assieme, si era rifiutato di prendere alcun provvedimento serio durante l’ultimo anno) l’economia spagnola non sta particolarmente peggio della nostra, anzi soffre di una recessione dell’attività economica minore di quella italiana.
Stabilito che i tagli veri, non solo quelli “prospettici”, sono possibili, occupiamoci del primo, quello sugli interessi. Nel 2010, quando lo spread non era ancora cresciuto, l’Italia spendeva (a seconda delle classificazioni) circa il 5,0-5,5% del proprio PIL d’interessi sul debito pubblico. Poiché vi sono ottime ragioni per aspettarsi uno spread di almeno 200-300 punti medi nel prossimo futuro (sto facendo l’ottimista) la nostra spesa per interessi raggiungerà il 7% del PIL, ben che vada. Di gran lunga i peggiori in Europa. Per ridurla anche solo di un punto percentuale occorre ridurre lo stock del debito di circa il 20% del PIL e per fare questo vi è una ed una sola soluzione: vendere le proprietà non necessarie alla produzione di servizi pubblici ma utili solo ad aumentare il potere dei politici ed i redditi dei burocrati dello stato. Ossia: Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Cassa DDPP, Trenitalia, Rai… Sino alle centinaia di municipalizzate che pagano stipendi milionari a pensionati della politica. Più, se non bastasse, patrimonio immobiliare pubblico sino a raggiungere la cifra desiderata, pari ad almeno 300-350 miliardi di euro. Da destinare a riduzione diretta dello stock di debito. Folle? Forse, ma l’alternativa è peggio. Pensateci, ci si sente la settimana prossima.