Della mafia, come della metafisica, dovrebbero parlare solo gli esperti. Ma mentre gli esperti della metafisica, rari e introvabili, possiamo lasciarli senza nostro danno ai loro soliloqui sublimi e inutili, gli esperti della mafia siamo costretti a sopportarli, quando gli avvenimenti li chiamano a ripeterci la lezione di circostanza, senza che al nostro intelletto esterrefatto giunga mai un barlume di luce. Anzi, di anno in anno, che dico?, di mese in mese il buio si fa sempre più buio.
E se cominciassimo a prendere la parola noi che esperti non siamo? Se cominciassimo, sgombrandoci di dosso ogni complesso di inferiorità, ad applicare
anche a questo fenomeno complesso e misterioso i sani e semplici criteri dell’etica politica su cui si basa, o dovrebbe basarsi, la nostra coscienza di cittadini? Ebbene, dopo aver fatto per una giornata una rigorosa astinenza – non ho toccato un quotidiano, non ho ascoltato un giornale radio, per paura di imbattermi negli esperti governativi – provo a dire la mia.
E comincio con la considerazione più ovvia: la mafia è il segno del fallimento dello Stato, anzi è la crescita di uno Stato illegale dentro le viscere dello Stato legale. I due organismi vivono utilizzando gli stessi apparati: respirano la stessa aria, sono irrorati dallo stesso sangue. Vivono in simbiosi, insomma, tanto che la morte dell’uno sarebbe, stando così le cose, la morte dell’altro. Nessuna radioscopia vi permetterebbe di distinguerli l’uno dall’altro. Nello Stato legale si fa largo ricorso a espedienti illegali e nello Stato illegale si fa largo uso di espedienti legali. Su questo sfondo, la mafia propriamente detta è una espressione particolare di un male oscuro che ormai investe l’intero apparato amministrativo dello Stato.
Un amico imprenditore che opera a Milano ha cercato perfino il mio aiuto per sventare un costume ormai diventato normale in tutte le amministrazioni della penisola: quello delle tangenti nelle aste pubbliche. A suo giudizio non c’è in Italia un solo Comune che ne sia esente. Perfino alcuni amici parlamentari, competenti e onesti, ai quali ho esposto la questione, hanno scosso la testa e mi hanno detto: è vero, ma non c’è niente da fare! E così tutto continua, a tutt’oggi. Chi si presenta al concorso si sente dire dall’impiegato addetto: «Scusi, lei ha una presentazione?». Un modo pulito per chiedere quale partito o comunque quale padrino il postulante ha alle spalle. La cultura della tangente è ormai la cultura base del paese di Mazzini e di Garibaldi. Se la mafia del Sud ci getta, come oggi, nella costernazione, è perché essa fa largo uso della eliminazione fisica di chiunque, come Libero Grassi, si opponga alla prassi illegale. Ma ci sono infiniti modi per rendere innocui gli onesti: l’uccisione è il metodo più primitivo.
La mafia potrebbe davvero scomparire solo se il principio della legalità diventasse nella coscienza collettiva quello che è di per sé: il modo più elementare di esercitare la responsabilità per il bene comune. Ma che avviene? Mi pare di vederlo a occhio nudo. Di anno in anno si fa sempre più diffuso uno spirito di rassegnazione che spesso diventa cinismo. Ma che forse non è, il cinismo, l’ultimo surrogato delle ideologie che nel passato davano una qualche tonalità ideale al nostro ceto politico? Io non arrivo a sospettare che la nostra nomenklatura sia in rapporti di collusione con la mafia. Ma sono certo che se non c’è una complicità programmata, c’è una complicità oggettiva, il cui segno evidente è la spartizione
del potere, l’uso degli apparati pubblici per fini di parte, l’assegnazione delle prebende – si pensi ai posti direttivi nelle banche – secondo logiche di parte.
Del resto, lo spregio della legalità è diventato un principio proclamato dalle più alte cattedre dello Stato come dimostrano i pubblici elogi fatti agli esponenti di Gladio e della P2. Non ci salveremo da questo male se non ci sarà una insurrezione democratica […] Il cosiddetto «paese legale» si è costituito come un corpo separato la cui sopravvivenza impone metodi troppo affini a quelli della mafia. La parete di separazione va abbattuta, i criteri di rappresentanza vanno ripensati, le regole dello stato di diritto devono essere in grado di tener soggetto ogni potere, economico, politico, culturale, al criterio sommo del bene comune. Le segregazioni ideologiche non hanno più senso, e i monumenti viventi che fanno ombra al paese vanno calati giù dal piedistallo.
Si accumulano di mese in mese i segnali dell’urgenza di questa operazione. Dobbiamo creare un nuovo Stato che abbia senso anche per le popolazioni del Sud per le quali, dall’Unità in poi, lo Stato ha voluto dire una vergognosa subalternità a poteri politici ed economici insediati altrove. È in questo vuoto che è nata la mafia, metabolizzando, in forme adatte al clima, un male imperversante nell’intero paese. Un giorno Alessandro Magno riuscì a catturare un pericoloso corsaro. «Non ti vergogni – gli disse – di impadronirti delle navi con la forza?» «Io – gli rispose il corsaro – conquisto le navi, tu conquisti gli imperi: che differenza c’è?». Nell’antico apologo ci sono tutti i termini per un dialogo tra un boss di Palermo e un boss di Roma. E noi continuiamo a gettar fiori sulle bare, con le lacrime agli occhi.