A prima vista, la Unit 3, l’ultimo progetto realizzato dallo studio coordinato dal 36enne architetto Andrea Caputo, sembra una struttura industriale. Una delle tante dismesse dagli anni Ottanta nel quartiere Lambrate, a Nord Est di Milano. Ma poi, tra lastre di vetro e assi di alluminio, spunta il verde: piante di peperoncino coltivate su scrivanie e librerie, rampicanti sempreverdi e alberi di cedro. E si finisce per scoprire di essere sbarcati in una vera e propria serra agricola a due passi dalla ferrovia. Non una serra qualsiasi, però: in via Ventura 6, nella zona dell’ex fabbrica Faema, un team internazionale di dieci giovani, tra architetti, designer, botanici e ingegneri, ha messo a punto un impianto di autoproduzione agricola basato sull’uso di tecnologie verdi e sostenibili. «Un’idea», dice Andrea Caputo, «che si può replicare senza problemi nelle case e negli uffici».
L’iniziativa è partita due anni fa. Dopo sei mesi di progettazione e due di cantiere, è nata la Unit 3: una grande casa verde, sia per il colore dell’edificio che per le intenzioni dei suoi abitanti. Duecento metri quadri destinati, come spiega Caputo, «a essere non solo un luogo di lavoro, ma anche uno spazio pubblico che possa sensibilizzare i visitatori a un uso diverso dello spazio». E la location non è casuale. In via Ventura fino agli anni Ottanta sorgevano diverse fabbriche, poi convertite in gallerie d’arte e studi di design grazie all’imprenditore e collezionista milanese Mariano Pichler. Così, là dove prima venivano prodotte le Lambrette della Innocenti, ora sorge la cittadella degli artisti, diventata un polo di attrazione soprattutto nei giorni del Salone del mobile.Una delle serra di via Ventura
La serra di via Ventura si compone di uno spazio interno e uno esterno. Nel primo, un cubo di vetro chiuso, viene praticata la coltivazione idroponica di piccole piante di peperoncino sui piani e sulle mensole di arredi progettati ad hoc. Le radici delle piantine non sono immerse nella terra, ma nell’acqua, che viene continuamente pompata da una macchina, permettendo quindi ai vegetali di essere sempre “ipernutriti”. Niente sprechi, però: l’acqua che circola nei canali di alluminio (leggermente inclinati per farla scorrere) «è sempre la stessa che viene riutilizzata più volte». In un solo caso, poi, la crescita delle piante è anche aiutata dalla luce artificiale di una lampada a sua volta connessa ad un misuratore di PH «per evitare che vengano alterate le sostanze nutritive dal contatto con l’alluminio». Per esempio, continua Caputo avvicinandosi a una delle sue piantine, «le foglie non devono avere macchie scure come questa. Qui dovremo intervenire».
Nel caso della libreria, invece, il sistema di coltivazione utilizzato è di tipo acquaponico. Le radici delle piantine sono immerse in un acquario, in modo che le piante si nutrano con l’azoto residuo dei pesci, che a loro volta godono della diminuzione di tossicità dell’acqua ottenuta grazie alle piante. In questo modo, spiega Caputo, «vengono messe in gioco diverse potenzialità». Il risultato è un ambiente a metà tra la location ideale per rilassarsi, in cui domina il verde e i colori tenui, e un laboratorio di produzione. Con una costante: il rumore dell’acqua che scorre. Niente design per soli addetti ai lavori, però. Sia le scrivanie che le librerie “verdi” sono prodotte da XYZ Design, una startup di giovani milanesi. «Ma il prezzo dei prodotti non è ancora stato concordato», dice Caputo.
Nello spazio outdoor le piante sono invece coltivate nella terra con sistemi standard. Il trucco sta nell’orientamento della coltivazione, tutta rivolta a Sud per sfruttare in pieno la luce del sole. «In questo modo non c’è uno sforzo rispetto al processo naturale», precisa Caputo. Nell’orto di via Ventura ci sono specie in via di estinzione, alberi di cedro e anche diverse piante secche. Parte dell’intervento è ancora in fase di elaborazione. Una delle idee è quella di realizzare, in collaborazione con la facoltà di Scienze naturali dell’Università di Pavia, «una biblioteca delle essenze, con duecento diversi tipi di piante, distribuita in binari orizzontali leggermente inclinati». Sui due lati della struttura, stanno poi crescendo piante rampicanti sempreverdi destinate a comporre una parete verde. «A Sud», spiega Andrea, «per proteggersi dal sole, a Nord per questioni di privacy».
E non è finita qui. Nella Unit 3, viene anche raccolto anche il 70% dell’acqua piovana, che quindi non va a finire nell’impianto fognario della città ma viene utilizzata per l’irrigazione delle piante. «Con benefici sia privati che pubblici», precisa Caputo. «Riusciamo», racconta, «a raccogliere fino a tremila litri d’acqua mediante un sistema di vasi comunicanti costituito da undici vasche, di cui sette hanno un sistema di riuso dell’acqua che viene pompata per innaffiare i rampicanti e quattro sono invece dotate di filtri che ripuliscono l’acqua piovana utilizzata per irrigare la produzione di frutta o ortaggi».
«É un sorta di stress test», dice, «per dimostrare a noi stessi e agli altri quali possano essere i vantaggi della autoproduzione di vegetali in un’area urbana come questa». È vero, aggiunge, «che non è stato facile spiegare alle banche quello che volevamo realizzare con i finanziamenti che chiedevamo. Le banche ti chiedono solo garanzie economiche e il valore di quello che vai a fare passa in secondo piano». Alla fine, il prestito è stato ottenuto, ma ancora resta da realizzare l’impianto fotovoltaico previsto sul tetto della Unit 3, che ridurrà notevolmente l’impatto energetico. «Il funzionamento degli incentivi per le rinnovabili», dice Andrea, «è in continua evoluzione e non riusciamo a star dietro a tutti gli aspetti tecnico-burocratici».
Intanto, le piante della Unit 3 crescono a vista d’occhio. E presto nasceranno anche i peperoncini e i cedri. Il nostro intento, spiega Andrea, «è quello di essere una sorta di volano per la diffusione, anche nella stessa zona di Lambrate, di progetti simili. Unit 3 è parte di una ricerca tipologica su unità funzionali: alcune di queste sono uffici, altre riguardano struttura dedicate allo sport. Questa serra ha invece un carattere più sperimentale, dove ogni scelta è guidata da un’esasperazione di concetti e applicazioni legate al risparmio energetico, allo stoccaggio delle acque e alla sostenibilità ambientale. È un modello replicabile che ha come potenziale il quartiere e il vicinato, dove interventi simili potrebbero amplificare i risultati». E già i proprietari di alcuni edifici del quartiere si sono dimostrati interessati a replicare l’impianto. «Come questo edificio qui accanto con quel grande terrazzo», dice indicando un grande palazzo che ospitava una scuola araba, «si potrebbe creare un vero e proprio network di coltivazioni urbane».