Cevenini e l’uso strumentale dei suicidi in prima pagina

Cevenini e l’uso strumentale dei suicidi in prima pagina

Perdonerete il ricordo personale, che mi è solo utile per raccontare con più elementi ciò che vorrei rappresentarvi. Quando nel settembre del 2000 venni chiamato a dirigere Metro, il primo free press italiano, gli svedesi, che ne erano gli editori, ci illustrarono il progetto. Senza dilungarsi troppo, ma con la chiarezza di un’idea che era nata anni prima in quel paese, ci dissero soltanto ciò che per loro era indispensabile: zero politica politicante, ma solo una notizia sul centro-destra e una, graficamente di pari portata, sul centro-sinistra, nessun razzismo, attenzione all’economia delle famiglie italiane, con particolare riguardo  alle fasce meno protette. Come vedete, poche cose di un certo peso, che nel tempo sono sempre rimaste un punto distintivo. Per il resto, assoluta libertà di scelta.

Nello scorrere dei giorni, poi, imparammo altre piccole cose, una delle quali ci colpì particolarmente. Secondo un loro codice, che in fondo non fu difficile da capire, gli svedesi ci chiesero di non pubblicare mai in prima pagina la notizia dei suicidi. La consideravano una tragedia del tutto personale, così profonda e intima, dettata da motivi così privati che nessuno avrebbe avuto titolo di condividere, che ritenevano fosse un elemento giornalistico assolutamente «da proteggere». Avemmo – appena dopo pochi giorni – un riscontro immediato: il 15 novembre del 2000 moriva Edoardo Agnelli, il figlio dell’Avvocato.

Lontani ricordi mi tornano decisamente alla memoria proprio in questo tempo recente, in cui l’elemento suicidio si lega a doppio filo alla crisi economica e assurge a simbolo di un’epoca tormentata. I giornali italiani, massimi semplificatori d’ogni sensibilità, sembrano trovarci gusto e, non paghi della pura e semplice priorità delle notizie, che spinge la tragedia di vite spezzate in prima pagina, attribuiscono alla crisi economica il peso trainante di questa scia di dolore. Non c’è giorno senza la sua pena e così, quasi per magia, spuntano suicidi «mirati» da ogni dove.

Poi, però, qualcuno analizza. Studia i numeri, quei numeri che definiscono in maniera più sociale i fenomeni, ne fanno paragoni con altre epoche, li mettono vicini e magari traggono anche qualche conclusione. Una conclusione, non definitiva però significativa, cui arriva l’Istat è che nel 2009 e nel 2010, purtroppo, i suicidi per motivi economici sono stati di più. Ma stranamente, in quegli anni i giornali non ne hanno dato un segno tangibile come stanno facendo in questi mesi. Tutto questo ha un significato, ci porta nei pressi di una superficialità editoriale? Decidete voi.

In questo contesto, ieri è arrivata una notizia che mi ha sconvolto. Il suicidio di Maurizio Cevenini, una tra le persona più amate a Bologna, grande tifoso di calcio e di basket, e anche un vero sindaco mancato. Un attacco ischemico gli fermò la passione del cuore, quella politica che lo avrebbe portato certamente a primo cittadino, e lui da persona illuminata quale era ne riconobbe la supremazia scientifica e in una commovente conferenza stampa fece il passo indietro più doloroso.

Un gesto così privato e straordinario, mi sono detto ieri, non avrebbe visto la luce su Metro, secondo i dettami svedesi. Ma mi immaginavo che avrebbe riempito le nostre prime pagine. Invece niente, o quasi. Niente sul Corriere, niente sulla Stampa, niente sul Messaggero. Niente insomma sui grandi giornali, dove invece quotidianamente c’’è la conta di «altri» suicidi. Solo la Repubblica e l’Unità, con lo spazio che merita, gli attribuiscono «nobiltà» giornalistica sulla loro prima pagina.

È necessario trarre la conclusione più dolorosa, quella che ci racconta di un uso un po’ strumentale delle emozioni, senza arrivare al pensiero più cattivo, e cioè che esistano suicidi di serie A e suicidi di serie B? O per proteggere la nostra integrità giornalistica, vogliamo solo parlare di una colpevole sottovalutazione?
So solo che il Cev non c’è più.  

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