Il caso Easy Jet e l’assenza di cultura nelle imprese

Il caso Easy Jet e l’assenza di cultura nelle imprese

Ma quando parliamo di aziende che comunicano, di imprenditori che fanno impresa, di persone che muovono capitali, che danno lavoro a molte persone, quando parliamo, dunque, del tessuto produttivo di un Paese, dobbiamo considerare anche la parola cultura, come un tempo antico era persino naturale, o siamo semplicemente nei pressi di una desertificazione delle sensibilità, di una imbarazzante condizione di ignoranza che mal sopporta l’idea che l’obiettivo di fare denari debba comprendere anche l’esigenza di una crescita sociale?

Il caso della compagnia aerea EasyJet, sotto questo aspetto si presta a più di una considerazione. Il caso è abbastanza noto e qui lo riassumeremo per grandi linee. All’aeroporto di Venezia, dei signori napoletani si presentano al check per tornare a casa. Sono le 14.45 e il volo è previsto per 15.30. A un certo punto, sempre secondo il racconto di questi signori, il volo si chiude misteriosamente, lasciandoli a terra. Volano le solite frasi – «è una vergogna» – e altre suggestioni in cadenza napoletana, che provocano la reazione dell’impiegata al banco: «Imparate a parlare italiano, se Napoli non ci fosse tutto andrebbe meglio».

Che la signorina fosse un’impiegata EasyJet oppure un servizio esterno, pochissimo importa. Importa invece che la questione, assurta a dimensione pubblica, abbia poi stimolato una risposta ufficiale dell’azienda. E’ questo il momento decisivo della comunicazione, quando i migliori cervelli di una comunità produttiva si riuniscono per definire le linee guida in termini di sensibilità che opporranno a tutte le critiche piovute nelle ultime ore.

Ebbene, il comitato di salute pubblica di EasyJet, immaginiamo alla fine di un’estenuante discussione, «conferma l’episodio… si scusa per l’inconveniente», precisa che «sta indagando su quanto accaduto, ma esclude che le dichiarazioni fatte dal suo staff avessero intenti razzisti». E nell’escluderlo, si lancia in quella sociologia spicciola e avventurosa che spesso identifica la conferma di un pregiudizio: «EasyJet sostiene, e ha sempre sostenuto, le opportunità offerte dalla diversità e dal multiculturalismo».

Uno non sa se ridere o mettersi a piangere. Poi rilegge e, inevitabile, si deve porre un paio di domande: il diverso chi sarebbe, il napoletano? E chi il multiculturale, di grazia?

Questo episodio ha una sua perfezione, plastico nella sua dinamica sociale, impeccabile nella forma comunicazionale. Ottenendo esattamente l’effetto contrario di quel che desiderava per sé, e cioè il placarsi d’ogni polemica intorno a comportamenti considerati razzisti, l’azienda porta a compimento un’impresa titanica, difficilmente ripetibile, e cioè creare equivoco laddove voleva esser chiara e cioè sui diritti civili, sui principi ispiratori del buon vivere comune.

Il tratto comune delle nostre povere aziende italiane è esattamente questo: scarsa, scarsissima sensibilità sociale, capacità di comunicare pari allo zero, quando non addirittura inferiore allo zero, nessuna aderenza con la vita reale di un Paese, affannosissima ricerca di un’identità sentimentale. Naturalmente, qui si identifica quella forma di comunicazione che esula dal prodotto di competenza puro e semplice – un biscotto, un freno a disco, una maionese – o anche da quelle forme di solidarietà o beneficenza in cui le nostre aziende sono imbattibili, per entrare direttamente nelle dinamiche più delicate e sottili del mondo del lavoro, del rispetto per gli altri, della consapevolezza che non tutto si può ridurre a mero rapporto tra azienda e dipendente.

Il sospetto è che questi imprenditori, e chi agisce in nome e per conto dei medesimi, non leggano. Non leggano giornali, non esplorino libri, non abbiano confronto. Altrimenti saprebbero. Saprebbero stare tra noi meglio di quanto stiano facendo in questo tempo. Li sentiremmo parte di un cambiamento, pur nelle difficoltà. Senza ovviamente scomodare il ricordo di Adriano Olivetti, chè ci piange il cuore.  

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