L’intervento di Mario Monti alla trasmissione televisiva di La7, “Piazza Pulita”, lo scorso giovedì sera, ha evidenziato una volta di più l’aplomb e l’oggettivo spessore dell’attuale Primo Ministro.
Tanto di cappello, per la scelta dello scorso novembre, al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Se Luigi XVI, dopo l’ennesima gaffe di Maria Antonietta, avesse a suo tempo nominato come reggente un Mario Monti, la presa della Bastiglia sarebbe probabilmente avvenuta due o tre anni dopo.
Il punto, però, è che, alla fine, sarebbe comunque avvenuta. Al netto del Ministro Fornero, cui va ascritta l’unica misura coraggiosa diversa dalla pura e semplice introduzione di imposte (il retributivo per tutti, quanto meno pro rata: misura assai tardiva rispetto al 1995, ma certamente non per sua colpa) e cui va riconosciuto di essere la sola ad esprimersi con chiarezza sulla necessità di una parificazione di trattamento tra pubblico e privato, in termini di mobilità e licenziamenti, questo Governo è per il resto la migliore vestale possibile dello status quo.
A novembre 2011 non vi era dubbio che vi fosse da salvare l’Italia dal default. Il salvataggio, tuttavia, doveva costituire il prologo per la radicale trasformazione del suo apparato pubblico e di rappresentanza politica, non per la sua preservazione nei limiti del politicamente sostenibile.
Proprio i recenti decreti emanati dal Governo, per dare finalmente attuazione alla possibilità per le imprese di compensare i debiti iscritti a ruolo con i crediti che esse vantano nei confronti della pubblica amministrazione per le forniture eseguite e non pagate, sono un accadimento tanto eccellente quanto rivelatore. Meno di un mese fa questa ipotesi è stata ascritta dal tra quelle meritevoli di suscitare indignazione. Cosa è successo in mezzo? La ripresa dell’economia?
No, solo il consenso popolare alle elezioni amministrative per un movimento che si dichiara apertamente antisistema, oltre ad analoghi smottamenti elettorali in occasione delle elezioni politiche di altri Paesi europei. E poi dicono che l’antipolitica fa male. Un Governo tecnico si presume non gestisca il consenso popolare, ma faccia quello che si può fare, se ci sono le condizioni tecniche per poterlo fare.
Questi decreti sono però la prova provata che, anche per questo Governo tecnico, la bussola, per discernere ciò che si può fare da ciò che non si può fare, è evidentemente il consenso politico.
Seppur, va detto, con un’ottica diversa: non quella della destra, sinistra o centro, ma quella del Palazzo rispetto a chi ne è fuori.
Fino a quando il sistema regge, nell’eterno gioco delle finte contrapposizioni tra partiti, si tira la corda con i sudditi.
Quando è il sistema stesso a rischiare di venire messo in discussione, l’impossibile diventa possibile e l’inattuabile diventa attuabile.
Per forza, se l’approccio è questo, il risanamento si fa a colpi di tasse e la spending review si usa invece con il contagocce.
Per forza, si liberalizzano settori dell’economia privata che magari sono già assai liberi nei fatti e non si incide sulla struttura dello Stato e del parastato. Per forza, ci si scatena nella lotta all’evasione a colpi di decreti e spettacolarizzazioni e si procede al rallentatore sul fronte della lotta alla corruzione. Per forza si riforma il mercato del lavoro privato e ci si muove con i piedi di piombo sul pubblico impiego.
L’Italia non può certo permettersi il lusso di un ritorno dei partiti che l’hanno portata nel vicolo cieco in cui si trova, ma non può nemmeno sperare di uscirne affidandosi a un Governo tecnico che, ormai è evidente, nella maggioranza dei suoi componenti interpreta il proprio mandato come quello di nume tutelare, per quanto politicamente possibile, dello Stato a discapito del Paese. Serve la sintesi di una società civile che, pur non essendo organica al sistema, abbia sufficiente lungimiranza per sapere che esso va profondamente riformato, non qualunquisticamente abbattuto. E serve assai più in fretta di quanto non si creda.
*direttore di Eutekne.info