Più che una disfida tra buoni e cattivi – come entrambi i contendenti tendono, specularmente, a raffigurarla – lo scontro tra il cardinale Tarcisio Bertone e il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, concluso con il defenestramento di quest’ultimo, corona sette anni di un pontificato tanto ambizioso nella volontà di ripulire la Chiesa quanto impotente nel portare a compimento l’obiettivo.
La rovinosa caduta di Gotti Tedeschi è stata rappresentata dai protagonisti in modo talmente divergente da rendere difficoltosa una esatta ricognizione degli eventi. Per il Consiglio di sovrintendenza che lo ha sfiduciato “all’unanimità”, il problema della governance dell’Istituto per le Opere di Religione “ha destato progressiva preoccupazione” – recita la nota diramata dal Vaticano – e, “nonostante ripetute comunicazioni”, la situazione è “ulteriormente deteriorata” fino a imporre al board il siluramento del presidente “per non avere svolto varie funzioni di primaria importanza per il suo ufficio”. Un linguaggio inusitatamente abrasivo ed esplicito per gli ambienti curiali solitamente abituati ai toni felpati e ai messaggi obliqui. E che indica una bocciatura di Gotti Tedeschi nel merito, non per motivi politici: il board, del resto, è composto dai laici Carl A. Anderson, Giovanni De Censi, RonaldoHermann Schmitz e Manuel Soto Serrano. A chi gli ha parlato in queste ore, Gotti Tedeschi ha dato una lettura molto diversa delle sue “dimissioni”. Il Vaticano – e, in particolare, Bertone – ha agito “vigliaccamente”, facendo pagare al banchiere dell’Opus dei tanto l’opposizione al rilevamento dell’ospedale San Raffaele, promossa – senza successo – dal segretario di Stato vaticano con i soldi dello Ior e dell’imprenditore genovese Vittorio Malacalza; quanto la linea della “trasparenza” per l’adeguamento del Vaticano agli standard internazionali di anti-riciclaggio. Un don Chichotte, insomma, battuto dai mulini a vento dell’omertà curiale.
Come siano andate veramente le cose è difficile dire. Certo Gotti Tedeschi, così come il cardinale Attilio Nicora, presidente dell’Autorità vaticana di informazione finanziaria (Aif), hanno protestato con Bertone per la decisione di stemperare la fresca legge vaticana anti-riciclaggio riducendo i poteri della stessa authority di vigilanza e cassando la retroattività delle norme. Certo il braccio destro del Papa ha affidato il dossier all’energico avvocato statunitense Jeffrey Lena, che già difende la Santa Sede nei processi per pedofilia oltreoceano, e che ha trattato Gotti Tedeschi con modi bruschi poco apprezzati dal banchiere.
Certo Bertone si consulta costantemente con personaggi – Marco Simeon, Giuseppe Profiti – con i quali Gotti Tedeschi non si è mai preso. Certo non sarebbe la prima volta che Bertone aggiusta, smorza, attutisce gli slanci che gli arrivano dall’appartamento del Pontefice. E certo Gotti Tedeschi ha goduto di una solida, diretta stima di Benedetto XVI, tanto da affidargli la prima stesura di diversi capitoli della enciclica Caritas in veritate e da intrattenersi più volte con lui su questioni di economia, etica e finanza. Certo, infine, Gotti Tedeschi e il direttore generale dello Ior Paolo Cipriani hanno bypassato le rogatorie internazionali e si sono fatti interrogare, non senza qualche soprassalto nei sacri palazzi, dai magistrati romani che sequestrarono nel dicembre del 2010 un fondo di 23 milioni di euro e iscrissero i due banchieri nel registro degli indagati.
È difficile, tuttavia, credere alla rappresentazione di Gotti Tedeschi come un cavaliere senza macchia impegnato in un’operazione trasparenza ortogonale ai desiderata di Bertone. E non solo perché fu proprio il porporato a incaricarlo nel 2009 di un repulisti nel torrione Nicolò V. Ma anche perché quando la Banca d’Italia avvertì gli istituti di credito italiani dei rischi connessi con le operazioni intrattenute con lo Ior, nel 2010, Gotti Tedeschi andò su tutte le furie. Lo stesso è accaduto quando JpMorgan ha chiuso il conto dell’istituto vaticano. Amante delle boutades, delle tesi economiche al limite della provocazione, carattere esuberante – diversissimo dalla riservatezza ai limiti del nascondimento del suo predecessore Angelo Caloia, saldamente al timone dello Ior dal 1989 al 2009 in periodi non meno procellosi di quelli attuali – Gotti Tedeschi in questi tre anni è sembrato più legato alla banca spagnola Santander, di cui ha fondato la filiale italiana, che alla presidenza dello Ior. L’istituto vaticano gli deve essere apparso una fonte infinita di grattacapi, giudiziari e non solo. Tanto da vivere l’incarico, soprattutto negli ultimi mesi, con crescente smania, quasi a cercare lo scontro senza ritorno, quasi ad accelerare la propria fuoriuscita. Caduta, in modo eclatante, proprio quando il suo ex sodale, Tarcisio Bertone, è un’anatra sempre più azzoppata. Fallito l’assalto al San Raffaele, sbaragliato il tentativo di mettere le mani sull’istituto Toniolo, snobbato dalla rete di nunzi apostolici, isolato dalla vecchia guardia wojtyliana, preso di mira da uno stillicidio di fughe di notizie, sfociate nel libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità, che ne espone plasticamente inettitudine e improvvisazione.
Più che una battaglia tra buoni e cattivi, tra ragioni diverse e contrapposte, tra visioni della Chiesa e della finanza perpendicolari, allora, il redde rationem dello Ior fa venire alla luce un problema di fondo della Santa Sede nell’era Ratzinger. Il Pontefice tedesco, coadiuvato dal suo segretario personale monsignor Georg Gaenswein, è persona seria, oltre che teologo colto e uomo di dottrina. Ma è un intellettuale riservato, rimasto, nonostante un trentennio al cuore del potere vaticano, sostanzialmente impermeabile alle logiche dell’establishment curiale. Denunciò la “sporcizia” della Chiesa nella Via crucis pasquale che precedette di pochi giorni la morte di Giovanni Paolo II – quasi un programma di governo – e a quella piattaforma ideale si è attenuto. Ha cercato la trasparenza, o quanto meno non l’ha osteggiata, anzi l’ha incoraggiata, ogni volta che, dalle nebbie del passato, è emerso uno spettro di ambivalenza, di affarismo, di corruzione. È successo quando è scoppiato il bubbone della pedofilia del clero, quando è tornato a galla l’intreccio di appalti e favori attorno alle case romane di Propaganda fide, quando è tornata d’attualità la sparizione di Emanuela Orlandi.
Ma i risultati, alla fine, sono stati stentati, e l’immagine del Pontificato, anziché rifulgere per il suo riformismo conservatore, ha rappresentato una Chiesa in crisi fin nel suo vertice assoluto. La fuga di notizie di documenti riservati, culminata nell’arresto dell’assistente di camera pontificia Paolo Gabriele, è solo la riprova di un sistema di governo attraversato da lotte intestine tanto inconcludenti quanto opache. E – forse per le troppe resistenze che ha incontrato, forse per la scarsa perizia dei collaboratori di cui si è circondato – ogni slancio di trasparenza si è ingolfato, si è affievolito, ha dato la stura a conflitti interni insanabili come lo scontro tra Bertone e Gotti Tedeschi.
Lo Ior, intanto, naviga in acque incerte. La commissione cardinalizia di vigilanza, presieduta da Bertone e composta dai cardinali Attilio Nicora, Jean-Louis Tauran, Teleshphore Placidus Toppo e Odilo Pedro Scherer, si è riunita ieri, ha certificato la sfiducia a Gotti Tedeschi ed ha affidato l’interim della presidenza a Ronaldo Herman Schmitz, 73 anni, tedesco, ex ad di Deutsche Bank, sinora vicepresidente dell’istituto. Nelle prossime settimane i maggiorenti della Santa Sede dovranno scegliere quale strategia adottare in vista della partita con MoneyVal per fare entrare il Vaticano nella “white list” dell’Ocse. Potrebbero lasciare Schmitz a capo del consiglio di sovrintendenza, oppure scegliere un nuovo presidente. La nota che sanzionava Gotti Tedeschi sottolineava che il prossimo sarà un “eccellente Presidente”, che “aiuterà l’Istituto a ripristinare efficaci ed ampie relazioni fra l’Istituto e la comunità finanziaria, basate sul mutuo rispetto di standards bancari internazionalmente accettati”.
E già circolano, in una girandola poco controllabile, i nomi dei possibili successori. Rispunta Antonio Fazio, cattolicissimo, che ha ormai scontato il purgatorio seguito alle sue dimissioni dai vertici di Bankitalia. Si prospetta il nome di Cesare Geronzi, gran banchiere cattolico, mentore di quel Marco Simeon tanto caro a Bertone come al cardinale in ascesa Mauro Piacenza, prefetto della congregazione del clero vicino all’Opus dei, e arcinemico di Giulio Tremonti e di Gotti Tedeschi, tanto che in un’intervista al Corriere della sera del dicembre scorso, lo liquidò, ironicamente, come “personaggio ritenuto preparato, che si è particolarmente esercitato nella demografia”. Qualcuno, addirittura, azzarda il nome di Hans Tietmeyer, ex patron della Bundesbank. Certo non giovanissimo – ha 80 anni – è però cattolico, tedesco come il Papa, membro fisso della Pontificia accademia delle Scienze sociali (il think tank della Santa Sede alle cui riunioni hanno partecipato, negli ultimi anni, Mario Draghi, Luca Cordero di Montezemolo, Joseph Stiglitz). Come biglietto da visita con il mondo della finanza internazionale, niente male.