«Io preferisco stare fuori, anche solo perché non si sa mai», dice una donna, appena uscita dalle porte dell’ufficio di Equitalia in Bicocca, a Milano. È lì per pagare, e già non è piacevole. «Poi non si sa mai che salti fuori il pazzo», aggiunge. Perché, «si sa, le persone magari vengono lì con le migliori intenzioni, ma chi può sapere cosa gli passa, in quel momento per la testa?». Tutti intorno annuiscono. Le cronache delle ultime settimane, a questo proposito, danno un quadro della situazione che le giustifica.
A Napoli, l’11 maggio uno scontro con le forze dell’ordine della “Rete napoletana contro Equitalia” si è concluso con tiri di bottiglia e botte. A Roma sono state inviate lettere con dentro proiettili, e a Genova telefonate anonime parlavano di bombe nell’edificio, per fare evacuare gli uffici. Le molotov poi sono arrivate davvero, ma a Livorno, di notte, bruciando l’ingresso. Con annese scritte di “lotta continua”. A Firenze, invece, una telefonata dai toni chiari: «Domani metteremo una bomba», rivelatasi falsa. La scia di minacce si diffonde fino a toccare Anzio, Viterbo, Lanciano: una geografia ampia e fitta, di accuse, polveri e proiettili, suicidi e rabbia. Attilio Befera, presidente di Equitalia, ha cercato di difendersi: ha denunciato l’idea distorta che passa per la gente, e spiega che Equitalia «non è un ente a scopo di lucro, perché tutta la sua attività è al servizio dello Stato». Avrà anche cercato di fare quadrato, in difesa dei suoi 8.000 dipendenti, che però hanno paura.
«Chi non ne avrebbe?», confessa una di loro a Linkiesta, uscita dallo sportello per prendere un caffè. Non vogliono parlare senza autorizzazione, non potrebbero neppure. Ma il punto fa male. «Non è colpa nostra, noi facciamo solo il nostro lavoro», spiega un altro, che interrompe una telefonata. Si infervorano pure (e la reticenza iniziale scompare), per giustificarsi, «non è nemmeno vero che andiamo a casa loro», aggiungono, quasi a scusarsi di cose inesatte fatte girare sul loro conto. «Ma le regole sono queste, e noi possiamo fare solo così». O anche meglio: come ha notato un cliente, «quelli di Equitalia, da qualche tempo in qua, sono diventati gentilissimi». Il che è vero: ascoltano con pazienza, spiegano tutto. Addirittura, si alzano dallo sportello per tenere aperta la porta e far passare gli utenti più anziani. E se sulla questione ha parlato anche il presidente del Consiglio Mario Monti, ricordando che «le parole sono pietre», dimostrano di averlo capito bene anche loro. Proprio in quel momento, dentro, c’è qualcuno che alza la voce: «Io ho pagato, ma la ricevuta dov’è?», grida, e batte un pugno.
Per ora, solo parole. Ma anche storie: dentro o fuori, le persone che passano per le porte di Equitalia portano al braccio, in cartellette e fogli, un piccolo carico di colpa, di multe non pagate, di errori nelle dichiarazioni. Ma anche di rancore, cioè le cartelle vessatorie inesatte, già saldate o proprio sbagliate.
«Io avrei anche potuto contestarne alcune che mi sono arrivate», spiega un altro utente, anche lui fuori dall’ufficio. «Mancavano due firme necessarie, erano incomplete e per questo nulle». E l’avvocato? «L’ho consultato, sì». Ma un po’ per i soldi, un po’ per il tempo, ha preferito scegliere di pagare, piuttosto che tentare la via del tribunale. Farebbe il giardiniere, ma anche il naturopata. E ora lavora per una catena di ristoranti vegani. «Ma io non sono nemmeno vegetariano», anzi: «una bella bistecca me la mangio volentieri».
In ogni caso, ogni mese, deve passare per Equitalia. Sorbendosi tutte le noie del caso. «Vengo presto al mattino», cioè alle 8.20, quando apre l’ufficio e «c’è già tantissima gente in coda» che aspetta. Un’ altra volta, invece, è venuto al sabato, ma ha trovato chiuso. «Eppure doveva essere aperto – indica gli orari sul cartello – vede? Nei semi-festivi, è scritto chiaro, chiude alle 11. E alle dieci era chiuso». Tutta colpa, spiega, dell’unione tra Equitalia Nord ed Esatri «Sì, ma i cartelli dovrebbero cambiarli», si intromette una signora inglese. «E anche i computer non vanno: una volta sono venuta, ma era tutto in tilt». «Io speravo che fosse un attacco hacker», fa lui, «così mi faceva sparire tutte le pendenze». E invece, erano solo più prosaici problemi tecnici. «Stavano cambiando il sistema informatico», spiega.
Dentro, la situazione è comunque ordinata. Si prende il numero e si aspetta seduti in sala il proprio turno. «Noi – una coppia di anziani – abbiamo sbagliato la dichiarazione dei redditi», e «ora siamo qua», raccontano. Con pazienza, sfogliano il giornale. «Meno male che Monti si è sbilanciato», commenta lui. «Era ora», spiega lei. Del resto, il problema è sentito. «Non è che sono agitata – racconta la moglie – ma ogni tanto, confesso, mi guardo in giro». Il mese prima «c’era un signore che si è messo a gridare, a fare scene, a minacciare. Lo capisco. Però anche gli impiegati, che colpa ne hanno? Nemmeno loro c’entrano». Vero, ma chi entra qui non porta con sé solo la cartella della colpa, ma anche la frustrazione.
Nella crisi dell’inizio del secolo, il nervo scoperto passa per Equitalia, dove si arriva a vedere che le solite litanie, che si cantano nei bar e per strada, suonano più vere. Cioè, le parole diventano davvero pietre. «Questi qui – la signora intende i politici – si spartiscono i milioni, e poi ci sono persone che faticano ad arrivare a fine mese». Gli utenti, che un po’ rassegnati, un po’ tesi, aspettano il loro turno. Sanno, sentono, che qualcosa non va. «Io ho perso il lavoro qualche mese fa – continua la signora – perché il call center in cui lavoravo è fallito». E ora aspetta, anche lei con pazienza, di passare il turno. E pagare.