Krugman: “L’austerity fa male, gli Usa non seguano la Ue”

Krugman: “L’austerity fa male, gli Usa non seguano la Ue”

CHICAGO – Paul Krugman è uno che dice sempre quello che pensa. Il titolo del suo ultimo libro, “End this depression now!”, punto esclamativo incluso, ne è una conferma. Basta con i programmi di austerità, basta con un dibattito intellettuale tra i più aridi mai registrati e basta con uno stallo politico a Washington che secondo il docente di Princeton, Nobel per l’economia e storico editorialista del New York Times, sta facendo scivolare il paese nel baratro di una recessione in piena regola.

Le battaglie enumerate da Krugman alla presentazione del libro all’Economic Policy Institute, un centro studi alla sinistra del dibattito economico americano, sono semplici. Perché allora, si chiede Krugman, in America come in Europa vediamo schiere di economisti credere ciecamente “nella fata dell’austerità?”. Negli ultimi quattro anni questo approcio non ha causato altro che contrazioni del PIL in Europa come negli Stati Uniti. «Tecnicamente è semplice – spiega l’economista ad una sala gremita ed elettrizzata – politicamente molto meno. Un primo passo sarebbe di assumere tutti quei lavoratori che il governo federale e i vari stati hanno licenziato negli ultimi anni. Basterebbe stanziare 300 miliardi all’anno e ricomincerebbero a lavorare 1,3 milioni di persone portando il tasso di disoccupazione sotto il 7 per cento. Invece nulla, soltanto tagli».

Chiunque abbia letto almeno uno degli editoriali di Krugman sul New York Times sa che l’austerità è il suo principale nemico perché per un keynesiano, o meglio un neo-keynesiano, un incremento ragionato della spesa pubblica è il solo modo proficuo per uscire da una recessione. Forse tagliare all’impazzata nel corto periodo salva l’apparato statale e lo stato e riduce il deficit ma nel lungo periodo non è che un disastro. Ovviamente tutte quelle persone che nell’immediato rimangono senza lavoro e soprattutto i giovani che non riescono a cominciare una propria carriera un domani non genereranno una base imponibile che può generare entrate per lo stato.

Prendiamo il caso dell’Italia: se il reddito medio nel periodo post crisi e negli anni a venire sarà di poco superiore ai mille euro mensili, in tasse lo stato non può per ragion di logica guadagnarci più di tanto. Martedì sul social network Reddit un fortunato fan di Krugman è riuscito a porre un’interessante domanda: «Quanti posti di lavoro è necessario tagliare per riuscire a ridurre il deficit di 15 mila miliardi?». Secondo i calcoli dell’economista di Princeton «assumendo – come è largamente accettato nel mondo accademico oggi – un moltiplicatore di 1,5, se i tagli alla spesa pbblica fossero di 100 miliardi il PIL si contrarrebbe di 150 miliardi, o [nel caso degli Stati Uniti, ndr] dell’1 per cento del PIL. Cifra che secondo Christy Romer [ex consigliere economico di Obama, ndr] è equivalente a circa 1 milione di posti di lavoro. Ma non è tutto perché i tagli riducono le entrate dello stato e di conseguenza 100 miliardi di minori spese riducono il deficit soltanto di 65 miliardi. Dunque per ridurre il deficit di 15 mila miliardi dovrebbero saltare almeno 18 milioni di posti di lavoro».

Tutti argomenti che Krugman ripropone con volontà incrollabile, due volte a settimana, sulle pagine del NYT da quasi quattro anni. «Perché allora scrivere un libro?», si chiede ironico lo stesso Krugman. Di libri sulla crisi ne sono usciti molti, anzi moltissimi. “End this depression now!” ha però una caratteristica quasi esclusivamente sua: la maggioranza delle analisi guardano indietro e cercano di spiegare le ragioni per cui siamo arrivati alla crisi. Questo è fondamentale, ma la domanda più importante e difficile da affrontare è cosa fare adesso.

Secondo Krugman al momento «c’è troppa attenzione all’aspetto finanziario, e al così detto “denaro caldo” [ovvero alle operazione di breve per effettuare arbitraggi nei vari mercati finanziari sfruttando momentanee differenze di prezzo, ndr]. Questo è stato sicuramente uno dei motivi della crisi, ma non la causa principale. I problemi se si guarda bene [in America, ndr] sono venuti soprattutto dai finanziamenti di lungo periodo, ovvero dai mutui e dunque dall’indebitamento medio delle famiglie che è stato troppo alto per troppo tempo». Quindi «sì a tassare i redditi finanziari e sì ad una Tobin tax come quella in discussione in Europa, ma no a pensare che questa sia la panacea ai mali economici».

Prendiamo sempre il caso dell’Italia. Se la tanto proclamata tassa di Robin Hood fosse attuata secondo i calcoli del direttore per la tassazione presso la Commissione europea, Manfred Bergmann il risparmio sarebbe una riduzione di 6,4 miliardi di euro di contributi che l’Italia dovrebbe all’Unione Europea. Senza dubbio un risparmio, ma non una risposta al problema fondamentale che è come dice Krugman «la semplice mancanza di domanda causata dall’austerità», motore di tutte le economie.

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