Pizza ConnectionNell’hinterland di Milano dove comanda la ‘ndrangheta

Nell’hinterland di Milano dove comanda la ‘ndrangheta

Se oggi sappiamo molto di come è organizzata la ‘ndrangheta al nord, e non solo, buona parte del merito va alla chiacchiera facile di Vincenzo Mandalari, nato a Guardavalle e trapiantato in quel di Bollate dove faceva l’imprenditore e coltivava l’idea di creare un movimento politico.

Per tanti abitanti del posto, 40mila circa, alle porte di Milano, Mandalari è un incensurato imprenditore, impegnato nel settore edilizio e delle compravendite immobiliari. Gli investigatori e la Direzione Distrettuale Antimafia di Milano la pensano diversamente, e il suo nome compare tra i destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare della maxi-operazione “Infinito” del luglio 2010. Per tutta risposta, la notte del blitz, Mandalari, ritenuto dagli inquirenti il capo della cellula di ‘ndrangheta a Bollate, non si fa trovare. Rimarrà latitante fino al gennaio 2011, quando viene pizzicato e arrestato dai Carabinieri di Monza a San Giuliano Milanese. In tasca un migliaio di euro e un documento falso. Vista la latitanza e la conoscenza che Mandalari stesso ha sempre dimostrato nelle intercettazioni delle indagini a suo carico, si fa strada anche l’ipotesi di una talpa.

Per capire le dinamiche delle cosche da queste parti Vincenzo Mandalari, già condannato dal tribunale di Milano a 14 anni con rito abbreviato, è personaggio centrale. Entra in tutte le vicende di mafia della zona ed è presente all’ormai noto summit di Paderno Dugnano in cui i capi-cosca della ‘ndrangheta al nord eleggono il nuovo referente per la Lombardia al circolo Arci intitolato, ironia della sorte, a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

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L’uomo è già noto alle cronache, in quanto il suo nome emerge nel corso delle indagini riguardanti il sequestro Sgarella, rapita l’11 dicembre del 1998 e amministratrice delegata della Italsempione Spa, azienda di trasporti di Cornaredo, nell’hinterland milanese, ai tempi con un fatturato di circa 240miliardi di lire e 180 dipendenti. Sono gli anni dei sequestri di persona che la ‘ndrangheta compie per foraggiare le casse dell’organizzazione con i riscatti. Molti dei nomi coinvolti in quel sequestro li ritroviamo dieci anni dopo in Lombardia, alcuni dei quali con tanto di attività economiche che lavorano nel pubblico e nel privato. Ovviamente fuori da ogni regola di leale concorrenza, ma per molti imprenditori della zona, per non avere rogne «è comodo far lavorare i loro mezzi».

Da Bollate e dal fuoristrada di Mandalari arrivano indicazioni preziose agli inquirenti per incastrare gli uomini della ‘ndrangheta al nord e portare alla sbarra più di 150 persone, 110 delle quali già condannate in primo grado. Con la sua ditta, la IMES Mandalari si prende commesse private e pubbliche, in città e fuori. Allo stesso modo il clan cerca di infiltrarsi nella società Infrastrutture Acque Nord Milano, la Ianomi Spa: è lo stesso boss di Bollate a utilizzare il rapporto con il consigliere comunale e dipendente della stessa Ianomi, ex Ds, Francesco Simeti (non indagato) per inserire uno dei suoi uomini nella società a partecipazione pubblica. L’inserimento del “raccomandato” di Mandalari avviene, poi scatteranno gli arresti e Ianomi si costituirà parte civile al processo.

Gli inquirenti dedicano 34 pagine all’interno dell’ordinanza di custodia cautelare per descrivere la “locale” di Bollate, e non da meno è la requisitoria del pm di Milano Alessandra Dolci durante il processo che definisce la questione Ianomi, il tentativo di candidare una lista civica con nipoti e cugini e l’assalto all’Expo. Un assalto al calor bianco, perchè, come dice ancora Mandalari intercettato «a noi i grandi lavori dell’Expo, fare le grandi opere non interessa. A noi interessa andare a mettere i tondini per strada, a noi interessa realizzare centri sportivi, centri sociali». Tutte piccole commesse che evidentemente non hanno bisogno di una gara pubblica e dove viene più facile infiltrarsi e strappare subappalti al ribasso.

Ianomi si dissocia e tramite una conferenza stampa, dieci giorni dopo la maxi-operazione annuncia la costituzione parte civile, ma è interessante vedere, a proposito dei «tondini per strada», cosa la ditta di Mandalari fece per la Ianomi. «Ianomi Spa – si legge in un comunicato dell’azienda – non ha mai lavorato con aziende presenti nell’elenco che è sottoposto dalle forze dell’ordine al presidente Roberto Colombo. Soltanto la società Imes ha impiegato la propria manodopera per un intervento quantificabile in 896 euro oltre Iva per il sollevamento dei chiusini». Certo, una commessa da qualche centinaio di euro, ma sufficiente per far capire come si vuole entrare nell’affare Expo, che arriverà anche qui.

Mandalari scriverà dal carcere di Ancona prima di essere condannato a 14 anni al giornale locale di Bollate “Il Notiziario”: «Sono Mandalari Vincenzo, ho deciso di scriverle in quanto vorrei che lei desse voce al mio stato d’animo, dopo che la mia immagine è stata dipinta in modo scabroso dai giornali, i quali non hanno esitato a raffigurarmi come un boss della ’ndrangheta a capo di chissà quale organizzazione, come ha fatto qualcuno inventandosi storie assurde sul mio conto infamandomi senza avermi mai conosciuto né in bene né in male». Dello stesso avviso parenti e amici, per cui gli inquirenti prendono una «cena tra calabresi per un summit di mafia».

Poco distante da Bollate, dove un altro dei nodi da sciogliere è quello della “ex cava Bossi”, su cui nemmeno Regione Lombardia è stata fino ad ora in grado di dare risposte esaurienti sulle modalità d’uso e sui rifiuti contenuti nel sottosuolo, c’è Paderno Dugnano. Resa celebre nel luglio 2010 non da qualche imprenditore nato dal niente sotto la Madonnina, ma da una “mangiata”. Una mangiata al circolo Arci Falcone & Borsellino, blindato per l’occasione da pannelli alle finestre, per eleggere il nuovo capo della ‘ndrangheta lombarda, dopo l’uccisione di Carmelo Novella, fatto fuori a causa delle sue mire autonomiste rispetto alla casa madre calabrese.

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A filmare e registrare l’intero summit sono i carabinieri del nucleo investigativo di Monza il 31 ottobre del 2009. Una immagine sgranata in bianco e nero, che per qualche giorno è stata protagonista sui teleschermi di tutta Italia. Incontro, preparato nei mini dettagli da parte degli ‘ndranghetisti che sfruttano anche la conoscenza del consigliere comunale del centrosinistra di Paderno Dugnano Arturo Baldassarre (non indagato). Tre mesi prima è ancora Mandalari, che spiega al telefono come è andata al locale «Ho detto ad Arturo, qua ci sono 500 euro per te, non deve esserci nessuno, neanche tu. Ci sei tu ma non ci devi essere neanche tu. Ed ha 500 euro, chiuditi la bocca, tanto siamo 50 cristiani sono cinquemila…. 5 euro a testa … Gli raccogliamo 500 euro ad Arturo e gli dico Arturo: silenzio assoluto, e basta! Non gli dico né quello che devo fare né quello che non devo fare». Baldassarre nei giorni successivi agli arresti, rispondendo ad alcune interviste ribadisce di non sapere che a quella cena fosse presente il gotha della ‘ndrangheta lombarda. Da rilevare come, tra le altre cose il nome di Mandalari risulta tra le prenotazioni del circolo Arci, ma non tra i soci.

Eppure in questa zona, la storia della ‘ndrangheta in trasferta e ormai ben trapiantata non è finita, perché troviamo Rho, impero di Expo2015, sede di un’altra cellula mafiosa attiva e teatro di alcuni depistaggi di appartenenti alle forze dell’ordine. Le famose “talpe”, che spesso avrebbero tenuto informati gli stessi ‘ndranghetisti delle indagini in corso.

Per comprendere le dinamiche della mafia al nord occorre seguire i soldi, l’imprenditoria, la politica e la cocaina. È qui vicino, tra Garbagnate Milanese e Cesate che si è smascherato un imponente traffico internazionale di cocaina tra Colombia e Italia, via Venezuela e Polonia. Qui la “roba” viene via a 80 euro al grammo «quella buona», mentre poi ci sono gli «infami che tagliano con la merda chimica» che te la fanno a 50. E la roba in questione, viene intercettata. 1.130 chili di cocaina vengono sequestrati dai carabinieri, ma per la Dea statunitense (Drug Enforcement Administration) quei 1.130 chili avrebbero dovuto essere 5 tonnellate, poi ridotte a una da parte dei narcotrafficanti (italiani residenti tra Garbagnate e Cesate, ma già vecchie conoscenze delle polizie sudamericane) per questioni logistiche.

Nell’indagine che ha smascherato questo ponte fatto di cocaina, denominata “Marcos”, c’è chi compra dalla piazza colombiana, un mediatore, finanziatori insospettabili e i “fornitori ufficiali” per quella grande piazza di spaccio che è Milano e l’hinterland. «Milano è in mano ai calabresi», diceva Marcello Sgroi, 58 anni e trait d’union tra Bogotà e Milano. Così anche a Garbagnate e Cesate due rimasti coinvolti nell’operazione si erano candidati in politica con la lista “Progetto sociale di destra”. Niente da fare però, i 281 voti presi non sono stati sufficienti per entrare in consiglio comunale e né per il candidato sindaco della lista, titolare di un’armeria.

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